In Rassegna Stampa

Londra dista meno di 2.000 chilometri da Roma. Manchester circa 2.200. Parigi meno di 1.500. Berlino 1.500 circa. Kabul oltre 6.500. Poi, vuoi mettere: a Parigi, Londra, Berlino sono bianchi (ancora, almeno). In Afghanistan scuri di pelle, quasi neri… Sì, è vero, anche il loro sangue è rosso. Ve lo ricordate il monologo di Shylock ne “Il mercante di Venezia” di Shakeaspeare? “Non ha forse occhi un ebreo? Non ha mani, organi, membra, sensi, affetti e passioni? Non si nutre egli forse dello stesso cibo di cui si nutre un cristiano? Non viene ferito forse dalle stesse armi? Non è soggetto alle sue stesse malattie? Non è curato e guarito dagli stessi rimedi? E non è infine scaldato e raggelato dallo stesso inverno e dalla stessa estate che un cristiano? Se ci pungete non versiamo sangue, forse?…

   Ecco, al posto di ebreo ci si può mettere copto, yazidi,  curdo, nero, come “ieri” italiano-macaroni-dago, polacco, irlandese…il resto va sempre bene…

La polizia afgana parla di oltre 80 morti e di centinaia di feriti, provocati dall’ultimo attentato targato ISIS; tanti ragazzini, anche; ventisette giorni dopo un altro attentato, che ha ucciso “appena” otto persone. Magari a questo si presterà una briciola in più di attenzione: anche un ospedale di Emergency è rimasto coinvolto; ma non troppa, che si parla “solo” di danni: gli operatori della struttura stanno bene. Dunque, si volti pure pagina…

Però, forse, in questa pagina non sarebbe male restare. In Afghanistan, Stati Uniti e alleati sono intervenuti nell’autunno del 2001. C’era stata la strage alle Twin Towers, Osama bin Laden aveva scatenato la sua guerra santa, i taleban lo proteggevano… E dopo l’Afghanistan, ecco l’Irak di Saddam. L’inquilino alla Casa Bianca era George W. Bush, che ora trascorre quieto il suo tempo nel ranch di Crawford: dipingere ritratti di veterani caduti in combattimento, “Portraits of courage”, “tributi di un Comandante in capo ai guerrieri americani”.

Mission accomplished” dice Bush il 1 maggio 2003, nel suo discorso sulla portaerei “USS Abraham Lincoln”; è la frase che di solito si pronuncia al termine di una missione. Doveva essere l’annuncio della fine delle operazioni militari. Vediamo bene, che la missione non è per nulla “accomplished”: Bush non è più presidente; e neppure Barack Obama I e II; oggi c’è Donald Trump, e la missione è ancora in corso.

Converrebbe restarci, nella pagina afgana. Inutile fare gli struzzi e nascondere la testa sotto la sabbia.

Secondo i dati forniti dalle Nazioni Unite il 2016 è l’anno con il maggior numero di vittime di attentati terroristici, a Kabul e dintorni: oltre 11mila fra morti e feriti gravi documentati (non si saprà mai quanti, tra loro, sono sopravvissuti). Le milizie islamiste occupano il 10 per cento del territorio afgano, e ne contendono un buon 30 per cento. Il governo di Kabul, insomma, controlla poco più del 50 per cento del paese. Siamo al sedicesimo anno di conflitto. Gli Stati Uniti e l’Occidente non ne sono venuti a capo. Gli analisti dicono, concordi, che per sciogliere qualche nodo occorrerà inghiottire, piaccia o no, qualche amaro boccone. Si chiama, questo boccone amaro, compromesso politico con i taleban. Potrà essere più o meno disonorevole, umiliante, ma questo è.

Onore, orgoglio e umiliazione a parte, c’è che i taleban non sono un blocco unico, un monolite. Sono una galassia polverizzata e divisa al suo interno; e ogni clan persegue una sua finalità: c’è chi vuole dominare una fetta di territorio; c’è chi vagheggia un emirato islamico; c’è chi ha dei conti da regolare con l’attuale regime che sgoverna Kabul. Poi, ovviamente si giocano partite al di fuori dei confini. I russi di Vladimir Putin non stanno certo a guardare; e neppure il Pakistan, che da sempre sostiene i taleban e interferisce boicottando ogni possibile trattativa; da sempre le forze armate pakistane, e i potentissimi servizi segreti di quel paese hanno solidi legami con i taleban. L’attuale presidente Ashraf Ghani Ahmadzai cammina su un tappeto di chiodi acuminati: presiede un governo dilaniato da continue rivalità e faide etniche; la corruzione dilaga, pessima l’amministrazione centrale e locale: satrapie occupate in furti e spoliazioni programmatiche e sistematiche. In questo contesto lo sfruttamento e il contrabbando di materie prime (minerali, marmo), ma soprattutto la coltivazione e lo smercio di droga sono moneta corrente. Diciamo che si parla di milioni di euro di ricavato che in buona parte vengono utilizzati per alimentare i conflitti, la cui ragion d’essere si trova nel poter continuare a lucrare con i traffici illeciti. L’Afghanistan è un ginepraio con il quale si dovranno fare i conti per decenni. Questo è il “dossier” Afghanistan.

Il camion bomba fatto esplodere a Zanbaq Square (una delle zone più protette di Kabul, figuriamoci le altre), questo ci dice. Si volti pure pagina, ora; ma quei 6.500 chilometri che ci separano dall’Afghanistan sono molto più vicini di quanto si creda.

Valter Vecellio

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