In Rassegna Stampa

Ci siamo. Domani, 23 maggio, sono venticinque anni. Come accade spesso, prima vieni “chiacchierato”, poi ti rimproverano di essere “chiacchierato” e alla fine, quando le chiacchiere stanno a zero, ecco che tutto si fa più facile, perché lo si è capito che tutto quel “chiacchiericcio” ha ottenuto il risultato di isolarti. E se ti hanno isolato, puoi essere anche colpito. La reazione sarà sopportabile, basterà chinarsi un po’ e attendere che passi la piena…

Ecco cosa deve aver pensato Totò Riina, quando una sera convoca boss e sicari, per annunciare che il loro nemico, deve essere eliminato. Lì, a quella cena, si decide che all’altezza di Capaci un’apocalisse ucciderà quel “gran cornuto di Giovanni Falcone”. Quello che per ragioni misteriose Riina ha voluto non fosse fatto a Roma, lo si farà in quel tratto di super-strada, tra l’aeroporto e Palermo.

Sì, davvero un “grande cornuto”, quel Falcone, agli occhi di Riina e dei suoi tagliagole.

Perché Falcone i mafiosi li capisce, li capisce bene. La sua formazione e la sua maturazione di magistrato lo mettono in condizione di comprendere bene quali trasformazioni segnano l’universo mafioso nella fase della “modernizzazione”, quella in cui i traffici illeciti legati al traffico della droga proiettati su scala internazionale hanno preso il posto dei “vecchi” interessi rurali. Si fa le ossa come pretore in provincia di Siracusa, poi passa a Trapani e segue sul campo i boss del luogo, la generazione mafiosa di passaggio tra il “vecchio” e il “nuovo”. Perfeziona la conoscenza del lessico mafioso, i segni, gli stili, impara a distinguere chi è il boss e chi è un “semplice” carnefice. Capisce che il tradizionale lavoro di polizia, basato su delazioni, sussurri, intuizioni al massimo consente di arrivare ai livelli bassi o intermedi della mafia; ma occorre rompere il muro di omertà e trovare prove che portino a condanne che reggano fino alla Corte di Cassazione… La pista del denaro, che non puzza, forse, ma tracce ne lascia, a volerle e a saperle trovare.

Così, nel giro di qualche mese viene ucciso il “viceré” di Palermo, Salvo Lima: un “ramo secco”, che forse ha tradito il patto di fedeltà, comunque non è più “utile”. Poi tocca al “Grande Inquisitore”, Giovanni Falcone che sarà seguito dall’amico di sempre, Paolo Borsellino e poi da un altro “ramo secco”, Ignazio Salvo, che con il cugino Nino (lui portato via da un cancro), non serve più, “inutile” anche lui: grande collettore di pubblico denaro per via del suo essere “esattore” della regione, ma in cambio nessuno dei favori un tempo assicurati e garantiti.

Chi spara, chi fa esplodere le bombe, segna anche la fine di un “equilibrio”. E, naturalmente, l’inizio di un altro “equilibrio”.

Qualche ora dopo il “botto” vado a trovare Giuseppe Ayala, il magistrato che lavora nel pool antimafia dell’ufficio istruzione di Falcone. Con Borsellino, Leonardo Guarnotta, Peppino Di Lello, Pietro Grasso, fa parte del “cerchio” ristretto. Lo trovo stravolto, non ha chiuso occhio tutta la notte; si è precipitato da Roma con il primo volo. Chiuso nel piccolo residence dove vive quando è in Sicilia, indica una bottiglia di whisky semi-vuota. Ci ha provato, a stordirsi, senza risultato. “Anche per la modalità con cui è stato eseguito, all’attentato è stato affidato un significato politico che deve essere raccolto. Non è riconducibile all’uccisione di un nemico della mafia da parte della mafia…”.

Ayala ricorda l’amico: “L’ultima volta che l’ho incontrato è stato domenica scorsa. Ci siamo visti a cena, per festeggiare i nostri compleanni. Con lui c’era anche sua moglie. Abbiamo conversato a lungo, e mi ha rimproverato perché non mi facevo sentire da qualche tempo”.

Sfoglio il mio personale album di ricordi. Palazzo di Giustizia di Palermo era – come è – quel grande edificio di stile razionalista, progettato dagli architetti Ernesto e Gaetano Rapisardi negli anni Trenta del Novecento, nel solco e nella tradizione della corrente tipica del regime fascista.

L’appuntamento è per la tarda mattinata, mezzogiorno. All’entrata un usciere mi indica un corridoio sulla destra. Alla fine del corridoio una stanza, un tavolo, un poliziotto che da ore non deve aver chiuso occhio e ora, crollato, dorme. Sonno profondo, tutto il mio tossicchiare è vano. Mi siedo in un angolo, attendo. Penso: potrei metterci una bomba, mettermi a sparare, portare via qualcosa, indisturbato. Passano i minuti, il poliziotto torna in sé. “Lei che cosa fa qui?”, domanda ancora assonnato. “Ho un appuntamento con il dottore”.

Il dottore”, fa il poliziotto, “è dovuto andare di corsa, c’è stato un delitto; farà tardi…”.

“Non importa. Se posso lo attendo…”.

Faccia pure”. Il poliziotto non mi degna di uno sguardo. Non mi chiede documenti, non si preoccupa di quello che posso avere con me; neppure chiede perché voglio vedere e parlare con il “dottore”.

Devo avere un aspetto molto rassicurante, penso. Oppure…

Un paio d’ore dopo, il “dottore” arriva. Chiede scusa per il ritardo, non c’è stato un delitto, c’è stata una strage, hanno fatto fuori tre donne, Leonarda, Vincenza e Lucia, la madre, la sorella e la zia di Francesco Marino Mannoia, il “chimico” di Cosa Nostra capace di trasformare quintali di morfina base in miliardi. Qualcuno ha saputo che aveva cominciato a “cantare”, e uccidendo le tre donne ha provato a farlo tacere.

Il “dottore” è stanco, sono ore che è sotto pressione. “Se vuole, rimandiamo”, propongo. “No, cinque minuti per un caffè e parliamo”.

E’ Giovanni Falcone, il “dottore”, e quella è la prima volta che lo incontro, che gli stringo la mano. Mi concede il pomeriggio, per parlare di mafia, e per spiegare quello che per lui è chiarissimo e a me risulta oscuro.

Lo incontro poi altre volte; una volta al Consiglio Superiore della Magistratura; o in scali d’aeroporto: a Zurigo, a Sofia, a Parigi. Lui era già all’Ufficio Affari penali, portatovi dal ministro della Giustizia Claudio Martelli, dopo che a Palermo per Falcone l’aria si era fatta irrespirabile: per colpa dei mafiosi, ma anche a causa del lavoro ai fianchi di tanti colleghi magistrati che on lo sopportano. Ogni volta la promessa di vederci con calma, per sapere qualcosa di più di una famiglia mafiosa che da sempre mi intriga, il clan dei Caruana-Cuntrera, partiti da Siculiana con le pezze al culo, ora sparsi in mezzo mondo, droga e ogni sorta di “affari” purché procurino denaro.

Mi è accaduto, anni fa, di trovarmi nella sede del quartier generale dell’FBI a Washington. Il Federal Bureau ha dedicato a Falcone una delle sue sale, c’è una targa che lo ricorda nella “Giovanni Falcone Gallery” e da anni un busto domina il giardino.

Credo ci siano solo due italiani ricordati negli Stati Uniti per la loro lotta e il loro impegno contro il crimine organizzato. Prima di Falcone, Joseph Petrosino, il poliziotto di Padula, emigrato giovanissimo negli Stati Uniti: l’uomo che ha sconfitto la Mano Nera e ha cercato i collegamenti tra Cosa Nostra americana e Cosa Nostra italiana. È venuto a Palermo, da solo, ed è stato ucciso a piazza Marina, si dice, da Vito Cascio Ferro, il boss mafioso cacciato da New York, che tornato in Sicilia inventa il “pizzu” in onore dell’estorsione programmata e scientifica. Cascio Ferro ha sempre negato di aver ucciso Petrosino: “Mi avete condannato per l’unico delitto che non ho commesso” ha detto più volte. Ma questa è un’altra storia.

Nella sede dell’FBI c’è un monumento, semplice, essenziale. Un muro bianco, ci sono incisi tutti i nomi dei poliziotti caduti, uccisi mentre facevano il loro dovere. È una lista sterminata che a vederla ti stringe il cuore, ti lascia senza fiato. Non credo che in Italia ci sia qualcosa del genere. Sarebbero tanti i nomi anche da noi.

Cosa Nostra lo vede come fumo negli occhi; non gli perdona di aver portato a compimento il maxiprocesso fino alla Cassazione, condanne definitive a tutti i boss della cupola. Non gli perdona di seguire la pista del denaro, che forse non puzza, ma tracce ne lascia, a volerle cercare e saperle trovare. Non gli perdona di aver compreso le trasformazioni dell’universo mafioso, i traffici di droga proiettati su scala internazionale, che prendono il posto dei vecchi interessi rurali.

Anche tanti avversari tra quanti, nelle istituzioni lo avrebbero dovuto sostenere, aiutare; e contribuiscono al suo isolamento. Quando Antonino Caponnetto lascia l’Ufficio istruzione di Palermo, sembra naturale che al suo posto sia nominato Falcone. Ma la maggioranza del Consiglio Superiore della Magistratura fa valere il criterio dell’anzianità e non della competenza, e nomina un altro magistrato con scarsissima esperienza di mafia. Il pool antimafia viene smantellato, Falcone si deve occupare di indagini su scippi, borseggi, assegni a vuoto.

Falcone è sempre più solo. Si candida ad alto commissario per la lotta antimafia. Bocciato. Si candida al CSM. I suoi stessi colleghi gli negano il voto. Il culmine quando alcuni leader del movimento della Rete lo accusano di tenere chiusi nei cassetti la verità sui delitti eccellenti. E’ costretto a una umiliante difesa al CSM. Accetta la proposta del ministro della Giustizia Martelli di dirigere gli Affari penali a Roma. Lo accusano di diserzione. Infine la procura nazionale antimafia: un organismo con il compito di coordinare le inchieste contro Cosa Nostra. Lui è il naturale candidato, il CSM lo boccia ancora una volta. E anche da ambienti insospettabili gli piove l’accusa di non essere più affidabile, si essere asservito a logiche governative.

Lo hanno ostracizzato da vivo, spesso, gli stessi che lo esaltano ora: e si capisce: era favorevole alla separazione delle carriere dei giudici dai pubblici ministeri; era per la responsabilità civile del magistrato; era favorevole all’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale. Come volete che fosse amato, un tipo così, nel suo ambiente?

Istruttiva la lettura di un brano del libro I disarmati” di Luca Rossi. Riporta una cruda “riflessione” ad alta voce di Falcone: “…Il fatto è che il sedere di Falcone ha fatto comodo a tutti. Anche a quelli che volevano cavalcare la lotta antimafia. Per me, invece, meno si parla, meglio è. Ne ho i coglioni pieni di gente che giostra con il mio culo. La molla che comprime, la differenza: lo dicono loro, non io. Non siamo un’epopea, non siamo superuomini; e altri lo sono molto meno di me. Sciascia aveva perfettamente ragione: non mi riferisco agli esempi che faceva in concreto, ma più in generale. Questi personaggi, prima si lamentano perché ho fatto carriera; poi se mi presento per il posto di procuratore, cominciano a vedere chissà quali manovre. Gente che occupa i quattro quinti del suo tempo a discutere in corridoio. Se lavorassero, sarebbe molto meglio. Nel momento in cui non t’impegni, hai il tempo di criticare: guarda che cazzate fa quello, guarda quello lì che è passato al PCI, e via dicendo. Basta, questo non è serio. Lo so di essere estremamente impopolare, ma la verità è questa…”.

Valter Vecellio

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