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Certamente la fragile figura di Anna Frank è ben più forte di tutti gli scarti della storia. Difenderne il ricordo è doveroso, ma superfluo. Finché quest’umanità che noi siamo riuscirà a conservarsi nella sua identità di pensante, il sorriso di quella bambina, poetica martire delle orrende offese che questa stessa identità è capace d’infliggersi, vivrà nella memoria delle persone nel fondo integre.

Dunque, se un imbecille deride qualcuno o qualcosa di serio, non c’è da fare altro che riderne come dinanzi ad una curiosità della natura. Ben sa ciò qualche scaltro politico che, fingendo di dire seriamente cose da ridere, conta di non essere giudicato imbecille dagl’intelligenti ma di essere preso sul serio e applaudito da molti, che per difetto d’informazione o per rabbiosa reattività a vere o presunte ingiustizie, sono pronti a seguirlo. Di siffatta scaltrezza il mondo è, non dico pieno, ma assai ben fornito.

Il fatto è che oggi il mondo non ha Dio, cioè un valore supremo, ma neanche dèi, cioè pluralità di valori conviventi. L’idea di un politeismo dei valori, come la pensava Max Weber, non appartiene al mondo presente, per la semplice ragione che i valori tutti uniformemente ridotti al significato originario di capacità di qualcosa di essere scanbiata con un’altra, e dunque essere connotata da un prezzo. Cominciò nel Seicento Tommaso Hobbes col dire che «il valore o pregio di una persona coincide, come per tutte le cose, col suo prezzo, cioè con quanto si sarebbe disposti a dare per l’uso del suo potere», e «perciò non è un valore assoluto, ma dipendente dal bisogno e dalla stima d’altri».

Intesi così i valori come semplici prezzi, e reso ciò corrente con il linguaggio dell’economia sempre più sviluppata, la laicizzazione del mondo ha finito per significare che il mondo non ha più come punti di riferimento altro che i prezzi. Tutto si compra, tutto si vende, e non ci si vergogna più, come un tempo almeno avveniva, di comprare o vendere ciò che allora si considerava non commerciabile come, ad esempio il sesso, la giustizia, il sapere. Dunque, al limite, la corruzione non esiste, perché non ha più senso parlarne. Il presidente Cantone può tornare alla giurisdizione, un giorno il più lontano possibile bisognosa anch’essa di essere difesa da un normale mercimonio.

A questo punto la laicità, come mondo di puri prezzi, e quindi esposta alla relatività della esposizione al mercato, potrebbe trovarsi minacciata da chi per un qualsiasi motivo la contrasta, cioè non solo la contesta teoricamente ma ne minaccia l’esistenza. Potrebbe, per esempio, una civiltà fondata sull’assolutezza di certi suoi valori, aggredire e tentar di cancellare la laicità dalla nostra vita fin qui vuota di valori, per riempirla forzosamente con i suoi valori.

Che fare? Vale o no la pena di difendere, e fin a quale prezzo, la nostra laicità senza valori?

In altri termini la laicità è essa stessa barattabile, in cambio della vita o di maggior benessere materiale? Insomma la laicità senza valori è a sua volta un valore, e un valore supremo, non relativo, per la cui sopravvivenza si è disposti a tutto, dunque qualcosa che potremmo chiamare «sacro», intangibile?

In caso contrario noi, che convintamente pratichiamo la laicità senza valori, entreremmo in flagrante contraddizione con noi stessi. E non ci resterebbe che essere tanto miserabili da rinnegare la nostra più stringente convinzione. Acconciarci a vivere, incorporando vilmente la contraddizione logica sarebbe l’ultima abiezione della nostra umanità.

Dal dilemma non si esce: o si approfitta della sbandierata laicità senza valori per non avere il disturbo di difenderla, o si sta saldamente in essa e si è pronti, difendendola, a riconoscerla come valore?

Io credo che un primo e non piccolo aiuto a superare la difficoltà dell’inquietante dilemma stia nel restaurare una corretta terminologia. Se il termine «valore» si afferma nella cultura moderna con significato economico, come corrispettivo di «prezzo», è linguisticamente igienico restaurare il bel nome antico, che ancora il nostro Vico adoperava per significare ciò che vale in senso non economico: «dignità». Si tratta di nominare ciò che è «degno» di essere venerato, o almeno onorato, ma soprattutto, in termini laici, «rispettato». Il rispetto è l’unico assoluto umano, che includa il riconoscimento della relatività dei punti di vista, e perciò il riconoscimento dell’inviolabile autonomia di ogni persona.

La dignità è assoluta. Ma il conflitto dei valori, pur sempre «economici», cioè al servizio di un interesse particolare, solo il rispetto consente di risolverli. A differenza della dignità, i valori possono entrare in conflitto tra loro e, come scriveva Carl Schmitt nel piccolo libro del 1960, significativamente intitolato «La tirannia dei valori», questi conflitti non possono essere risolti se non con la mediazione, cioè con il coraggio del dialogo e del coinvolgimento nel gioco non ingannevole della ragione.

In conclusione, il laico non può esimersi con alcun pretesto dal dovere di difendere la laicità, che tutti nel suo orizzonte comprende, anche chi la combatte e che perciò va combattuto.

Il laico coerente non può non riconoscere alla laicità la dignità, in quanto essa è l’orizzonte entro il quale come dèi minori possono rivivere i valori e rifiutata la corruzione.

La mediazione proposta da Schmitt va ripresa. Essa si può esercitare variamente, secondo le circostanze: di volta in volta è il silenzio che disarma chi urlando s’attende un urlo che amplifichi il suo; o è la sfida dialogica della ragionata polemica; o è il lavoro paziente e penetrante per educare a quella ragione che sola aiuta a far convivere valori diversi; comunque è il mostrare con fermezza di non essere disposti ad arrendersi ai qualunquismi di giornata.

Aldo Masullo

Fonte: Il Mattino

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