In Rassegna Stampa

Va portato a compimento il suo monumento: la biblioteca sia consultabile.

Non ci si può fermare, come per lo più avviene, alla sua straordinaria opera di promozione del sapere e al suo essere riuscito a fare di Napoli per alcuni decenni un centro internazionale d’incontri di altissimo livello scientifico. È vero che egli è stato universalmente acclamato «filosofo» per aver fondato l’Istituto italiano per gli studi filosofici e avervi chiamato a discutere i più illustri filosofi del nostro tempo. Ma troppo spesso resta in ombra il fatto ch’egli è stato filosofo in prima persona: certamente, come avrebbe precisato Leopardi, non «filosofo solitario» ma «filosofo di società», impegnato cioè nel comprendere il mondo degli uomini nella sua storicità, nel criticarne le debolezze e nel delinearne le prospettive.

Dietro il gran teatro di primedonne della scienza aperto sulla collina di Monte di Dio, e più tardi dietro il Carro di Tespi culturale delle Scuole estive sparse per molti anni in centinaia di città minori dell’Italia meridionale e poi di tutta l’Italia, dietro l’affannosa raccolta di migliaia di libri e di riviste d’informazione del sapere, dietro la vittoriosa ricerca della gloria nelle università di mezza Europa, dietro infine la martellante contestazione delle pubbliche istituzioni per le avarizie e i ritardi a danno dello sviluppo e infine della sopravvivenza stessa dell’Istituto, c’era non un fanatismo personale, ma una lucida visione politica.

Se nelle sue ultime ore, conversando col figlio, Gerardo parlava di Giordano Bruno e della interiore libertà dell’uomo, non è un casuale vagabondaggio della luce mentale, un suo ultimo guizzo prima di spegnersi, ma un ragionato richiamo pubblico, un’ultima lucida azione politica.

Parlare di Bruno è riandare a Bertrando Spaventa, che n’era stato tra i primi grandi studiosi risorgimentali e la cui ispirazione di fondo era stata, a partire dal Rinascimento, la linea di sviluppo di una filosofia nuova, propriamente italiana: pensiero non più della trascendenza ma dell’immanenza, postosi con la teologia in un rapporto non più di sottomissione, bensì d’indipendenza, primo audace e decisivo passo della modernità. Peraltro Spaventa e gli hegeliani di Napoli avevano tentato di saldare la profonda scoperta italiana della libertà dell’individuo nella società civile con il pensiero del grande filosofo tedesco impegnato nella costruzione di un’idea realistica e severa dello Stato che, nato magari dalla forza, si legittima però soltanto se le sue leggi garantiscono la libertà di tutti i cittadini. Ricordo, a questo proposito, che due anni fa mi trovati a partecipare nelle sale dell’Istituto ad un’iniziativa di Marco Pannella, il quale aveva da poco cominciato la sua ultima generosa azione politica per «il diritto alla conoscenza e lo Stato di diritto». In nessun luogo l’arduo tema poteva essere di casa come nell’Istituto di Marotta.

Gerardo iniziò la sua militanza d’intellettuale impegnato quando ventenne, nell’immediato dopoguerra, pose mano alla difficile opera della ricostruzione civile della nazione. Tra il 1947 e il 1954 animò l’Associazione “Cultura nuova” e il “Gruppo di studi Antonio Gramsci”. Fin d’allora dovettero venirsi formando i germi di un’idea che, sia pure con le inevitabili variazioni, via via maturando avrebbe per tutta la vita ispirato il pensiero e l’azione di Gerardo. I fermenti del rivoluzionarismo giacobino, del marxismo critico e della hegeliana idea dello Stato di diritto alimentarono in lui una visione dell’ordine civile che ne accompagnò tutti i gesti. Questi molteplici fermenti trovarono alla fine il catalizzatore della propria fusione nell’incontro della propria fusione nell’incontro con la straordinaria vicenda della Repubblica napoletana del 1799. Quando negli anni ‘80 lo Stato concesse all’Istituto come stabile sede i saloni di palazzo Serra di Cassano, Gerardo si trovò a tu per tu con la tragica ombra del principe Gennaro, che da quel palazzo era stato trascinato al patibolo nel corso della feroce repressione borbonica.

Dovette Gerardo provare l’emozionante impressione che il suo vago giacobinismo giovanile si saldasse, per un significativo gioco del destino, con il serissimo anche se ingenuo esperimento giacobino del 1799, diretto da un gruppo d’intellettuali illuminati e messo in atto da un nucleo sociale singolarmente interclassista di borghesi, di aristocratici e perfino di qualche plebeo. Questa ingenua serietà era stata pagata col sangue.

L’incontro ravvicinato con il precedente storico dovette rendere ancora più appassionata l’azione di Gerardo. L’idea di uno Stato laico, autenticamente liberale prima che più o meno retoricamente democratico, fondato sulla cultura critica, trovava nelle vicende della Repubblica del 1799 la sua essenziale prova. Allora Eleonora Pimentel Fonseca aveva iniziato l’alfabetizzazione della plebe affinché questa giungesse a includersi nella società liberale. Adesso toccava metter in concreto mano alla formazione culturale di tutte le classi sociali, perché queste riuscissero incluse non solo formalmente in uno Stato di matura civiltà democratica.

Qui la visione politica di Gerardo giungeva alla piena consapevolezza del suo significato e l’Istituto scopriva compiutamente la sua “missione”, il cammino verso l’Europa unita nel segno della pace fondata sulla conoscenza, sul diritto, sull’eticità.

Di fatto poi tutto è precipitato. «Il sogno è finito». Ma l’idea, quella visione, credo che intatte si siano come un pallio protettivo posate sulle spalle di Gerardo nei suoi ultimi giorni, insieme con la fede che, per dirla con l’immagine vichiana a lui cara, dopo la «barbarie», risorgerà la civiltà.

L’unico serio monumento a Gerardo Marotta sarebbe soltanto la sua biblioteca non semplicemente salvata ma inaugurata funzionante, con i libri catalogati e disponibili alla lettura. Sarebbe un primo passo fondamentale, non retorico, perché qui a Napoli si possa ricominciare a studiare in condizioni di parità con le altre grandi città progredite.

Fonte: Il Mattino

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