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Conversando con il prof. Isaia Sales

Intervista di Valter Vecellio
Napoli, 01 dicembre 2015

Valter Vecellio intervista Isaia Sales, docente di Storia delle Mafie all’Università Suor Orsola Benincasa.

L’intervista è stata registrata domenica 20 dicembre 2015 alle ore 11:00.

Nel corso dell’intervista sono stati discussi i seguenti temi: Borsellino, Calabria, Camorra, Campania, Cosa Nostra, Criminalita’, Droga, Economia, Falcone, Fascismo, Informazione, Lega Nord, Libro, Mafia, Narcotraffico, Ndrangheta, Nord, Politica, Sciascia, Sicilia, Stato, Stragi, Sud, Usa, Violenza.

Fonte: Radio Radicale

Isaia Sales, un passato di dirigente e di parlamentare nel Partito Comunista, consulente della Commissione Parlamentare Antimafia, ora docente all’Università Suor Orsola di Napoli; autore soprattutto, e da qui partiremo, di numerosi accurati studi su camorra, mafia, la criminalità organizzata, nel Meridione d’Italia, e non solo; e fresco autore di Storia dell’Italia mafiosa. Perché le mafie hanno avuto successo, pubblicato dall’editore Rubettino; per essere completi, 19,50€, 443 pagine.

Un “mattone” dal punto di vista della “corposità”, se così si può dire; un saggio consigliabile, raccomandabile: si legge bene, è estremamente interessante, accurato; richiede attenzione e partecipazione da parte del lettore, che ne viene ben ripagato. Isaia, cominciamo proprio dal titolo: perché le mafie hanno avuto successo? Perché ce l’hanno ancora? Perché aver sottolineato, sin dal titolo, questo aspetto, che potrebbe scoraggiare?

Isaia Sales: “Nel corso della storia, diverse forme di violenza hanno avuto un certo credito in un periodo più o meno lungo; tutte, alla fine, sono state sconfitte. Per capirci meglio faccio degli esempi: abbiamo avuto i pirati, poi il fenomeno del banditismo, il brigantaggio, come molto bene ci ricorda Ferdinand Braudel: in Italia e in Europa. Queste forme di violenza, che venivano dai ceti più popolari, quelli abbienti non ne avevano bisogno, alla fine, sono stati sconfitti. Quando quel tipo di violenza si contrappone allo Stato,ai cosiddetti certi dirigenti, alla fine inevitabilmente perde. Possono avere spazio per un certo lasso di tempo, ma non stabilmente. Nel caso della mafia, della camorra, di altre organizzazioni criminali simili abbiamo invece un qualcosa che dura dall’inizio dell’Ottocento, passa indenne regimi e governi, riscuote un crescente successo. Il successo di quelle mafie è dovuto alle relazioni con coloro che come compito hanno quello di contrastarlo. Mi spiego meglio: quando una forma di violenza invece di porsi in contrapposizione frontale con lo Stato, si mette in collaborazione, stabilisce relazioni con coloro che dovrebbero fronteggiarla. Di qui la ragione del successo. Le mafie sono l’unica violenza popolare che ha avuto successo, perché a differenza dei briganti, dei banditi e dei pirati, non si è contrapposto alle forze istituzionali; al contrario ha stretto relazioni. I mafiosi sono violenti che vivono dentro la società, dentro le istituzioni, dentro l’economia. Ecco il motivo del loro successo. Hanno imparato la lezione dei briganti: che alla fine, dovevano nascondersi, trovare rifugio sulle montagne; se in qualche modo facevano dei soldi, non potevano reinvestirli nel loro paese comprando casa; invece, i mafiosi prendono soldi e li reinvestano nell’economia, nella società senza problemi. I mafiosi sono stati impuniti per più di un secolo e mezzo: una impunità dovuta non tanto alla loro forza intrinseca; piuttosto dalle relazioni con chi avrebbe dovuto sconfiggerli, reprimerli, metterli in galera. Abbiamo seriamente cominciato a contrastare le organizzazioni mafiose dopo la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino; ma stiamo parlando di un secolo e mezzo dopo la nascita di queste organizzazioni. Sfido, in tutta la storia dell’umanità, a trovare una forma di violenza contro lo Stato che abbia avuto un margine di un secolo e mezzo di totale impunità”.

Lei quando parla di mafia si riferisce a Cosa Nostra siciliana, la ‘ndrangheta calabrese, la camorra napoletana o campana. Tre specifiche forme di delinquenza organizzata. E sostiene che solo dopo le stragi di Capaci e di Via D’Amelio si è reagito; ma per i cent’anni precedenti si è convissuto. Quindi, smentisce anche quel luogo comune, secondo il quale Mussolini ha estirpato la mafia: Cesare Mori, il “prefetto di ferro”, va in Siciliamette a ferro e fuoco l’isola, opera al di sopra e al di là anche delle leggi esistenti all’epoca, poi a un certo punto, viene fermato. Questo significa che la mafia riesce a convivere anche con il fascismo; diventa parte del regime; per questo “il prefetto di ferro”, viene fermato.

Sales: “È così. È assolutamente così. Nel senso che noi abbiamo diversi momenti storici nei quali le mafie sembravano alle corde. Per esempio, con l’Unità di Italia. Era un regime nuovo; era un regime che lasciava presagire, almeno nelle intenzioni, di fare piazza pulita con tutti i legami borbonici, o filoborbonici, compresi quelli mafiosi; dopo il fascismo le mafie, indubbiamente, avevano ricevuto un colpo, almeno le mafie più violente, quelle più, come dire, evidenti e all’inizio della modernizzazione del Paese, cioè dopo gli anni Cinquanta e Sessanta. In questi tre momenti storici, le mafie che sembravano in difficoltà, invece, sono riuscite a superare queste difficoltà.
Vediamo la prima: lo Stato italiano, al posto di relegare le mafie, come dire, a qualcosa che restava al vecchio regime borbonico, le hanno legittimate ancora di più. Per cui, la tesi storica per la quale le mafie sono un prodotto del regime borbonico e non hanno niente a che fare con l’Unità di Italia, viene smentita; l’Unità di Italia ha dato alle mafie una legittimazione e una forza che non avevano prima sotto il regime borbonico. Il fascismo indubbiamente, perseguita la parte più violenta delle mafie; al tempo stesso, istituzionalizza la violenza; una parte di quei violenti mafiosi hanno così due opportunità: stare con la mafia, o stare con lo Stato; una parte di questi, si inseriscono profondamente dentro lo Stato lasciando anche l’appartenenza alle mafie. Quindi, il fascismo colpisce alcuni settori della mafia, ma consente ad altri settori di istituzionalizzarsi. Non per nulla dopo la fine del fascismo, le mafie riprendono la loro forza e abbiamo la legittimazione del secondo dopoguerra. Una legittimazione che avviene attraverso l’anticomunismo. Nel mio libro riporto l’affermazione di un dirigente americano: “meglio ladri e mafiosi che comunisti”. Fu un prezzo pagato alla lotta anticomunista: se il nemico erano i comunisti, tutti coloro che erano schierati contro i comunisti andavano sostenuti. La DC lo fa in modo egregio. Quindi, nel periodo di massima difficoltà, le mafie trovano sempre un aggancio dentro le forze dello Stato, dentro le forze delle istituzioni, che le fanno superare questa loro difficoltà. Per tornare alla sua domanda: il fascismo, rispetto ai regimi precedenti, aveva fatto di più nella lotta alla mafia; al tempo stesso, molti violenti trovano agevole inserirsi nel regime, capiscono che la loro violenza può essere utile al regime.”

Infatti, Cesare Mori, a un certo punto, viene promosso e rimosso, lo nominano senatore del Regno, lascia la Sicilia, la lotta alla mafia finisce. Diciamo che aveva superato la soglia consentita…Ecco, lei ha concentrato la sua attenzione soprattutto sul fenomeno mafia-Cosa Nostra, la mafia siciliana, ben diversa dalla ‘ndrangheta calabrese, e dalla camorra napoletana o campana. Oggi, un po’ tutti gli studiosi e anche gli investigatori ci avvertono che la mafia calabrese, è la più pericolosa, la meno visibile, ma anche la meno permeabile, rispetto alle altre due organizzazioni mafiose. E’ d’accordo con questa analisi, e perché, se è d’accordo, la mafia calabrese è la più pericolosa tra quelle esistenti attualmente?

Sales: “Sono assolutamente d’accordo, anche se io nel libro provo a fare una storia unitaria delle tre mafie, qualcosa che finora non è stato fatto se non qualche tentativo: da Enzo Ciconte o John Dickie, per esempio: anche lorohanno tentato di fare una storia unitaria delle tre mafie. La domanda che mi sono posto è questa: se contemporaneamente, all’inizio dell’Ottocento, nascono tre mafie, nello stesso territorio dominato dai Borbone, qualcosa di comune devono pur averlo; e questo qualcosa sono le carceri. Ho trovato che la camorra napoletana dà, in qualche modo, il modello alla mafia siciliana e alla ‘ndrangheta calabrese: gli dà il linguaggio, i riti, un metodo. Tant’è vero che ancora oggi, nella ‘ndrangheta calabrese si giura, si fanno i riti come all’inizio dell’Ottocento; in quei riti, si parla di camorra: i gradi maggiori all’interno della ‘ndrangheta sono i gradi di camorrista, e di “picciotto di sgarro”. Si coglie un’assoluta continuità nel linguaggio e nei riti. Poi, queste tre forme criminali che hanno in comune il metodo, che noi, per comodità definisco violenza di relazione. Qual è il segreto del loro successo? È che la violenza la mettono al servizio delle “relazioni”. Non è una violenza che separa dalla società, o dall’istituzione. È una violenza di integrazione nella società e nelle istituzioni. Il metodo mafioso è contare con la violenza, essere potente con la violenza sia nel mondo criminale, sia in quello fuori da quel mondo. Questo è comune a tutte e tre le mafie. Poi nel tempo cambiano i rapporti, e anche il peso; ma è indubbio che il fenomeno più inquietante, più significativo, è quello della ‘ndrangheta calabrese: nel Novecento la forza della mafia siciliana è dovuta anche alle relazioni che aveva con Cosa Nostra americana. La proiezione internazionale della mafia siciliana si deve al ruolo, alle relazioni, al rapporto con quella americana. La ‘ndrangheta, invece, per quasi centocinquant’anni è stata silente, nessuno nelle istituzioni la prendeva in seria considerazione: forse c’era troppa attenzione per le grandi città meridionali, Palermo e Napoli; in Calabria non c’è una grande città dello stesso livello. Forse i calabresi avevano un metodo in qualche modo più sobrio, meno clamoroso. Sta di fatto che una criminalità, nata all’inizio dell’Ottocento, come mafia e camorra, fino alle soglie del 2000, non è oggetto di repressione, e attenzione. Come sia stato possibile che quella che oggi è considerata una delle forme di criminalità più importanti al mondo sia stata lasciata in pace per quasi centocinquant’anni è un assurdo…”.

Come se lo spiega, scusi?

Sales: “Me lo spiego così: Napoli e Palermo facevano più ‘opinione’. La Calabria viveva più nell’ombra e, in questa ombra mediatica ha approfittato anche la ‘ndrangheta”.

Questo può valere per me che sono un cittadino che accende la televisione, che legge il giornale, e rimane turbato dalla notizia di un omicidio a Piazza Politeama a Palermo, o a Lungomare Caracciolo di Napoli; per un investigatore dovrebbe essere diverso, e anche per un analista, uno studioso… Come è possibile che sia sfuggita la ramificazione di un’organizzazione criminale che è arcaica nei suoi riti, nelle sue modalità eppure modernissima: opera in Australia, in Canada, in Sudamerica, in Germania, in mezz’Europa? Com’è che sfugge? O sono complice, o sono babbeo

Sales: “È la prima. La ‘ndrangheta è l’unica forma criminale mafiosa che ha intrecciato un rapporto con la massoneria: un rapporto fortissimo con la massoneria; cosa che non si è verificata con la camorra, e ha avuto minore influenza con la mafia siciliana. La criminalità ‘ndranghetista capisce l’importanza di avere relazioni stabili segrete in un luogo che, in qualche modo, può essere un luogo di tutela. Ecco, noi abbiamo due fenomeni storici incomprensibili: quello della ‘ndrangheta calabrese che beneficia da una parte di una scarsa attenzione mediatica, dall’altra gode di una sorta di tutela grazierelazioni con servizi segreti e con la massoneria. L’altro fenomeno è il clan camorrista dei casalesi: rappresentano quelli che in Sicilia hanno rappresentato i corleonesi; prima di Roberto Saviano e delle indagini dell’inizio degli anni 2000, dei casalesi non si sapeva quasi niente. Chi ha deciso di mandare a Caserta i peggiori investigatori, i peggiori prefetti, i peggiori questori, come se fosse stato un luogo tranquillo e non il luogo di nascita di una delle criminalità più importanti in Italia e, poi, nel mondo? Chi ha deciso di non mandare i migliori investigatori in Calabria negli anni decisivi dell’accumulazione mafiosa calabrese e anche della sua forza? Ecco, sono le ombre della nostra Repubblica. Sono le ombre della nostra storia. Nel libro provo a dire che non comprendiamo le mafie se non le inseriamo dentro la storia italiana, dentro la grande storia dell’Italia. Se le mafie hanno avuto un successo come quello che stiamo registrando, questo ha a che fare con le decisioni della politica, con le decisioni delle istituzioni. La storia non è fatta solo di capi di Stato, di capi di governo, di ministri, di forze politiche. E’fatta anche di uomini come Raffaele Cutolo, come Totò Riina, come Bernardo Provenzano. Ci può piacere o no, sono parte della storia italiana: sono forze criminali che hanno influenzato le decisioni della Repubblica; sono state determinanti ai fini di alcuni fatti politici significativi: pensiamo la fine dell’Ottocento, con tanti siciliani che governano e sono capi di governo; all’epoca il voto siciliano era fondamentale per gli equilibri della nazione. Ma anche oggi la Sicilia gioca un ruolo fondamentale negli equilibri politici del Paese. Oppure pensiamo alla cosiddetta “corrente del Golfo” napoletana, ai rapporti che avevano con Cutolo e i suoi avversari della “Nuova Famiglia”; ma pensiamo anche al caso Cirillo… Insomma tutto si può fare tranne che fare, dei mafiosi e di questi criminali una storia a parte. La storia delle mafie noi dobbiamo cominciare a vederla come storia della nazione, perché esse hanno avuto un’influenza sulla storia della nazione molto al di là di quello che noi immaginiamo.”

Sempre per seguire questo affresco. Finora abbiamo parlato di Campania, di Calabria e di Sicilia. C’è una poesia che risale, credo, a fine degli anni Cinquanta o a inizio anni Sessanta di Leonardo Sciascia, che si intitola “La palma si sposta verso nord”; Sciascia osserva con questa metafora che ogni anno, due o tre centimetri, la palma mafiosa va verso settentrione. Altro che un paio di centimetri, si potrebbe dire. Ha oltrepassato le frontiere di Chiasso da quel dì. Però infiltrazioni sia di ‘ndrangheta, di mafia, di camorra, mi pare, che sono riscontrabili, ormai pressocché, in tutte le regioni di Italia, al punto che non solo dei comuni calabresi, dei comuni campani o dei comuni siciliani vengono sciolti per infiltrazioni o inquinamento mafioso, e sono comuni in Piemonte, in Liguria, in Lombardia… Ecco, possiamo dire, la mafia insegue il denaro e dobbiamo, forse, cominciare a lavorare sulle piste del denaro e scontiamo il fatto di non aver sufficientemente seguito queste piste?

Sales: “Assolutamente sì. Noi abbiamo seguito piste antropologiche sulle mafie. L’Italia si è molta soffermata sul perché avevano successo le mafie e ha voluto darsi una spiegazione di comodo: la mentalità dei meridionali, confondendo l’1 per cento della popolazione meridionale con il 99 per cento…”.

Scusi che la interrompo. Mi sento il dovere di dirlo, a proposito del pregiudizio cui ha fatto cenno. Bisognerebbe ricordare più spesso che lo sterminato elenco di morti uccisi dalla mafia o dalle mafie, quasi tutti sonosiciliani o campani o calabresi; questi caduti smentiscono questo luogo comune. In questo lunghissimo elenco forse l’unico che forse non è siciliano, calabrese o campano è il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa…

Sales: “E forse Ambrosoli… Dalla Chiesa e Ambrosoli”.

Ha ragione, mi riferivo solo a quelli caduti nelle tre regioni classiche…Mi scusi per l’interruzione.

Sales: “No, mi fa piacere di questa interruzione: mi offre lo spunto per una riflessione: nel Sud ci sono le mafie, ma ci sono una quantità di persone che le hanno combattute, e si smentisce questa idea di una complicità di massa della popolazione meridionale con le mafie; la gente non parla quando ci sono delitti, ma è avvenuto anche durante il terrorismo nelle regioni del Nord, o nella stagione dei sequestri di persona…Nel libro faccio degli esempi di come i magistrati dovettero ricorrere al sequestro dei beni delle famiglie perché non collaboravano, o di come durante gli anni di piombo non abbiamo scoperto nessun terrorista con la collaborazione della popolazione. Negli Stati Uniti non c’è stata necessità della collaborazione della popolazione per sconfiggere Al Capone, o a Marsiglia per neutralizzarei marsigliesi. Quando lo Stato deve fare la sua parte non può fare affidamento sulle denunce dei cittadini: le denunce vengono quando si riprende fiducia. Non possiamo invertire l’ordine dei fattori, per cui le mafie devono essere sconfitte dalle popolazioni; le mafie devono essere sconfitte dallo Stato, e se lo Stato fa la sua parte, dà fiducia alla popolazione. Tanto è vero che, oggi, si collabora nel Sud, come mai era avvenuto prima: hanno visto che lo Stato comincia a prenderli, non lascia che siano latitanti per tanti anni, li sconfigge, fa i processi. Ma l’idea “culturalista” delle mafie, la chiamo così nel libro, l’idea cioé che le mafie abbiano a che fare con un fatto genetico, di mentalità è una forma di razzismo e basta. Il Nord non ha capito le mafie perché è stato dominato dalla cultura leghista; mi ricordo una dichiarazione di un esponente leghista: “Le mafie sono espressione del centralismo”. Sciocchezze di questo tipo hanno dominato per anni. Non si sono accorti che le mafie sono quello che sono, sodalizi che fanno soldi con la violenza, si vogliono arricchire con la violenza. Non si sono accorti di quello che avveniva e avviene. C’è un delitto clamoroso, quello del procuratore Bruno Caccia a Torino, nel 1983: se non ricordo male è stato il primo delitto di mafia al nord. Ma tutti negavano che la mafia ci fosse, al nord: questori, prefetti, i magistrati di Torino, di Milano, dell’Emilia, della Toscana, dell’Umbria: tutti a negare l’evidenza, che le mafie sono esportabili, non sono un prodotto che può vivere solo ad una certa latitudine. Ecco la metafora di Sciascia è eccezionale. Non sono palme e, ammesso che siano palme, abbiamo visto che le palme possono vivere benissimo anche a Nord…”

Salgono

Sales: “Salgono. Io ho trovato una dichiarazione addirittura di Luigi Sturzo dell’inizio del Novecento, che dice la stessa cosa di Sciascia. I siciliani che hanno capito cos’erano le mafie, hanno previsto che, prima o poi… Sturzo dice che la mafia avrebbe scavalcato le Alpi e quindi anche…”.

A quando risale quest’affermazione?

Sales: “All’inizio del Novecento”.

Aveva la vista lunga

Sales: “Sciascia è profetico, perché è un siciliano attento, comprende quello che è elementare: una cosa è il radicamento delle mafie, un’altra è l’espansione delle mafie. L’espansione delle mafie non può che avvenire fuori dai loro territori, inseguono la ricchezza, la riciclano e hanno trovato un luogo favorevole ai loro investimenti nel mondo economico settentrionale. È lo stesso problema che si pose negli Stati Uniti. Quanto cominciarono i fenomeni mafiosi negli Stati Uniti, all’inizio pensarono: “È un problema dei siciliani, degli italiani”. Non capivano che se c’è un’offerta di servizi mafiosi, ci dev’essere anche una domanda, e la domanda non veniva da italiani, veniva dagli americani. Nel Nord, l’offerta mafiosa è meridionale, ma la domanda di quei servizi è settentrionale. E, quindi, perché non andare a vedere dentro coloro che, pur sapendo di aver a che fare con un mafioso decidono di aver con loro dei rapporti? Perché non andare a vedere quello che hanno fatto molti imprenditori del Nord che, per abbassare i costi dei rifiuti tossici, hanno affidato alla camorra lo smaltimento per risparmiare. Io credo che c’è un lato oscuro dell’economia italiana che le mafie mettono in mostra.”

A proposito di lato oscuro e di economia, italiana e non solo italiana: è noto che il mercato della droga è gestito, controllato, dalle organizzazioni criminali mafiose. Ne hanno ricavato enormi ricchezze. Questa enorme disponibilità finanziaria si traduce in un enorme potere e possibilità di controllo di governi, istituzioni, interi parlamenti. Come se ne esce? Con lalegalizzazione? Con ancora maggiore repressione? Qual è la sua opinione?

Sales: “Io ho cercato di fare una fotografia del fenomeno, e ho riscontrato questo dato: che in nessun momento della lunga storia delle mafie, i mafiosi sono stati così ricchi come oggi. Ci sono stati boss, forse più importanti degli attuali, con un’attitudine al comando e alla violenza, forse anche maggiore; in grado di esercitare sulla società un dominio più ramificato; comunque mairicchi come questi. E non esiste un “affare” che si sia rivelato così redditizio come quello della droga. A suo tempo il contrabbando di alcool negli Stati Uniti ha prodotto risorse consistenti, comunque non paragonabili con quelle procurate dalla droga; un mercato, basato come tutti i mercati, sul rapporto domanda ed offerta. Con la differenza che c’è una richiesta fortissima di droga, e l’offerta illegale consente di alterare il rapporto di mercato come nessun’altra merce al mondo: noi abbiamo altre “merci” dove il guadagno è uno, due, cinque, dieci, ma mai raggiunge i livelli della droga: il mercato illegale consente una variazione di prezzi impressionante”.

Se lei fosse un mafioso, ovviamente sarebbe un sostenitore del proibizionismo…

Sales: “Se fossi un mafioso sarei proibizionista: mi conviene, non c’è dubbio; l’illegalità consente un margine di guadagno che il mercato normale non dà, non darà mai. Dal punto di vista dello storico, non posso che constatare come l’attuale situazione renda i mafiosi ricchissimi, in grado di condizionare una parte consistente dell’economia e della finanza mondiale, di condizionare Stati e governi. Non riferisco nessuna straordinaria novità. Siamo al punto, è bene ricordarlo, che alcune banche, nella crisi del 2007-2008, sono state salvate dai narcodollari. Lo sostiene un dirigente dell’ONU, non io, che semplicemente riporto quello che lui dice. Alcuni Stati sono stati salvati dall’afflusso di narcodollari; da lì sono finiti nella Banca Vaticana, e sono girati nelle principali banche italiane. Bene: se accettiamo tutto ciò, allora non si faccia niente. Ma se noi pensiamo che bisogna tagliare questa opportunità straordinaria che il proibizionismo ha dato alle mafie, allora si intervenga su quel terreno. Non discuto lo strumento, non spetta a me farlo. Quello che è inaccettabile è offrire a quei criminali, grazie al proibizionismo, un peso economico di questa potenza. Questo è assolutamente inaccettabile”.

Quindi, in ogni caso, no allo status quo…

Sales: “La cosa importante è non far fare soldi alle mafie con il commercio delle droghe”.

Senta, può apparire datato, ma “Il giorno della civetta” di Leonardo Sciascia continua a essere una sorta di “livre de chevet”; e c’è una certa pagina che dovrebbe essere una stella polare: quella dove il capitano Bellodi, questo capitano dei Carabinieri che viene da Parma, si trova a che fare con Mariano Arena, il mafioso del paese siciliano; Bellodi è tentato di usare gli stessi strumenti di Mori: andare oltre la legge, perché si accorge che questo mafioso gli sta sfuggendo tra le mani; ha questa tentazione, poi dice che no, qui bisogna usare le armi del diritto, le armi della legge; perché se non usiamo la legge, il diritto, si diventa come i mafiosi. Quindi: diritto, legge. E’ una pagina esemplare che dovrebbe essere diffusa nelle scuole, dovrebbe essere portata a tutta la conoscenza…

Sales: “Sono assolutamente d’accordo, tanto è vero che in quest’università insegno storia delle mafie. La prima cosa che dico agli studenti prima di cominciare il corso: “Leggete un libro di Sciascia. Sceglietene uno qualsiasi, non è importante, “Il giorno della civetta” o un altro… anzi, se vi hanno costretti alle scuole medie o nelle superiori a leggere “Il giorno della civetta”, voi probabilmente lo odierete; quindi rileggetelo, a un’età più matura vi renderete conto che è un capolavoro; io posso dirvi mille cose sulla mafia, ma Sciascia le ha dette meglio di me, in forma narrativa e in forma esemplare. Ecco, dico questo ai miei studenti. “Il giorno della civetta”, come “Una storia semplice”, “A ciascuno il suo”, o “Todo modo”… tutti i libri di Sciascia ruotano attorno all’ossessione delle mafie, da meridionale consapevole che si guarda attorno (Sciascia applicava la teoria di Tolstoj: parla del tuo paese e capirai il mondo, parlerai del mondo). Lui guarda il luogo dove è nato, vede Calogero Vizzini a braccetto con il Presidente del Tribunale, con il procuratore capo, con il mondo della Chiesa… mafiosi e preti sono l’ossessione di Sciascia, come se ci volesse dire: “Una Chiesa diversa avrebbe potuto fare molto di più contro le mafie”. La pagina che lei ricordava prima è importante: ci sono due o tre siciliani, che hanno capito quest’importanza storica della ricchezza. Il primo, fu forse Pio La Torre, che presenta una legge che consente di combattere la mafia attraverso la ricerca della ricchezza; il secondo è Sciascia; il terzo è Falcone; tre siciliani che comprendono quello che altri non vogliono comprendere: la mafia è violenza per arricchirsi, per avere potere; non esiste un mafioso che non cerca la ricchezza: la ricchezza è l’essenza stessa della mafia, è un fattore identitario; loro, da siciliani, questo lo comprendono, e la loro è una lezione fondamentale anche per l’oggi. Noi continuiamo a immaginare che i mafiosi abbiano un consenso perché la gente è d’accordo con loro, perché c’è la stessa mentalità nei quartieri in cui loro dominano. No! I mafiosi hanno successo quando riescono a far vivere dell’economia illegale una parte della popolazione. A Napoli c’è un quartiere particolarmente disagiato, Scampia, dove si faceva, si fa traffico di droga alla luce del sole: le piazze dello spaccio erano sui marciapiedi, per le strade, in pieno giorno. Ebbene, lì, il consenso alla camorra è dovuto al mondo che gira attorno al traffico della droga: chi la spaccia, chi la vende all’ingrosso, quindi le migliaia di persone che sostengono i camorristi, li sostengono per ragioni economiche. Dobbiamo spezzare questo rapporto economico di consenso. Alla fine dell’Ottocento in alcune organizzazioni di lavoratori c’era la clausola esplicita che non si potevano iscrivere affiliati a clan mafiosi; immaginate all’inizio dell’Ottocento una cosa del genere. E nei tribunali la gente testimoniava contro i mafiosi, in proposito ho portato alla luce, dagli archivi, cose importantissime… Tutti i movimenti per la terra in Sicilia avevano anche un risvolto antimafioso. Ma quando ti ammazzano decine e decine di persone, e nessuno viene colpito, arrestato, quando nel secondo dopoguerra ben cinquanta segretari di Camera del Lavoro, di cooperative, sindacalisti, vengono ammazzati senza che nessuno vada in galera, come si può pretendere il coraggio?”.

La pista del denaro, tanto per cambiare…

Sales: “Appunto. Quando a Marsiglia decidono di sconfiggere il clan dei marsigliesi non chiedono il sostegno della popolazione, piuttosto fanno determinate operazioni per ridimensionarne il ruolo. Le mafie si possonobattere. Non è un esercito che occupa un territorio con le armi. Tutto sommato, i mafiosi non sono più di diecimila persone: diecimila in un Paese di sessanta milioni di abitanti… Quindi le mafie non sono un problema militare, non occupano un territorio con le armi. Lo occupano attraverso le relazioni. Qual è la soluzione per rompere queste relazioni? Il giorno in cui le mafie rompono le relazioni con la politica, o meglio: la politica rompe le relazioni con le mafie, ecco che diventano criminalità comune; e come tutte le forme di criminalità possono essere sconfitte”.

Sales, nella classe politica italiana la scorge questa “voglia”, questa volontà di operare nella direzione che ha appena indicato?

Sales: “Ci sono reazioni molto diverse. Da una parte il sistema politico che è consapevole che bisogna mettere fine a questa lunga storia di relazione con le mafie; c’è però una parte del ceto politico che formalmente dice di sì, ma nella sostanza non si comporta come sempre. Nel corso degli anni, alcuni politici hanno avuto relazioni con le mafie pensando che, prima o poi, le potevano scaricare; pensavano di servirsene, e poi scaricarle. È la situazione, forse, della DC siciliana, campana e calabrese. Poi sono rimasti invischiati in questa relazione. Chi comincia ad avere rapporti con le mafie, difficilmente ne può uscire con un atto volontario. La storia di Salvo Lima è emblematica. Ma c’è un punto controverso nella storia politica d’Italia che è la corruzione. Prendiamo il caso di Roma: il caso è interessante perché non parliamo di una mafia romana emanazione di una delle tre, la calabrese, la siciliana o la campana. Qui parliamo di una mafia autoctona. Nessuno poteva immaginare che ci fosse una mafia autoctona a Roma, con quelle caratteristiche, una sua forza di controllo del territorio, di intimidazione e una sua forza di consenso. No entro nel merito della vicenda. Quello che noto è che si sottovaluta il peso della corruzione come elemento legittimante delle mafie. Ora, chi è corrotto, non necessariamente è mafioso. Ci può essere la corruzione senza mafie. Ci sono parti del mondo dominate dalla corruzione dove non ci sono le mafie. Ma non esiste nessun caso in Italia dove esistono mafie senza corruzione. I mafiosi nelle istituzioni vanno d’accordo con coloro che usano la corruzione come metodo dell’agire politico. I mafiosi non attaccano l’insieme del sistema politico, si rivolgono a coloro che nelle istituzioni hanno un loro modo uguale di sentire. Che cosa accomuna i corrotti ai mafiosi? L’idea che ciò che pubblico può essere privatizzato e che quello che è di tutti può essere reso disponibile o attraverso il voto o attraverso la violenza. È la corruzione l’elemento, oggi, che unisce il sistema politico al sistema mafioso. La corruzione è l’elemento che unisce, oggi, le mafie in espansione con la politica, ma i politici non vogliono sentirselo dire. Pensano che si può essere corrotti senza necessariamente esporre le istituzioni alla penetrazione mafiosa, per cui posso semplicemente dirle che dovunque c’è corruzione prima o poi arrivano le mafie”.

(trascrizione non rivista dall’autore)

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Valter Vecellio intervista Isaia Sales, docente di Storia delle Mafie all’Università Suor Orsola Benincasa.

L’intervista è stata registrata domenica 20 dicembre 2015 alle ore 11:00.

Nel corso dell’intervista sono stati discussi i seguenti temi: Borsellino, Calabria, Camorra, Campania, Cosa Nostra, Criminalita’, Droga, Economia, Falcone, Fascismo, Informazione, Lega Nord, Libro, Mafia, Narcotraffico, Ndrangheta, Nord, Politica, Sciascia, Sicilia, Stato, Stragi, Sud, Usa, Violenza.

Fonte: Radio Radicale

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Isaia Sales, un passato di dirigente e di parlamentare nel Partito Comunista, consulente della Commissione Parlamentare Antimafia, ora docente all’Università Suor Orsola di Napoli; autore soprattutto, e da qui partiremo, di numerosi accurati studi su camorra, mafia, la criminalità organizzata, nel Meridione d’Italia, e non solo; e fresco autore di Storia dell’Italia mafiosa. Perché le mafie hanno avuto successo, pubblicato dall’editore Rubettino; per essere completi, 19,50€, 443 pagine.

Un “mattone” dal punto di vista della “corposità”, se così si può dire; un saggio consigliabile, raccomandabile: si legge bene, è estremamente interessante, accurato; richiede attenzione e partecipazione da parte del lettore, che ne viene ben ripagato. Isaia, cominciamo proprio dal titolo: perché le mafie hanno avuto successo? Perché ce l’hanno ancora? Perché aver sottolineato, sin dal titolo, questo aspetto, che potrebbe scoraggiare?

Isaia Sales: “Nel corso della storia, diverse forme di violenza hanno avuto un certo credito in un periodo più o meno lungo; tutte, alla fine, sono state sconfitte. Per capirci meglio faccio degli esempi: abbiamo avuto i pirati, poi il fenomeno del banditismo, il brigantaggio, come molto bene ci ricorda Ferdinand Braudel: in Italia e in Europa. Queste forme di violenza, che venivano dai ceti più popolari, quelli abbienti non ne avevano bisogno, alla fine, sono stati sconfitti. Quando quel tipo di violenza si contrappone allo Stato,ai cosiddetti certi dirigenti, alla fine inevitabilmente perde. Possono avere spazio per un certo lasso di tempo, ma non stabilmente. Nel caso della mafia, della camorra, di altre organizzazioni criminali simili abbiamo invece un qualcosa che dura dall’inizio dell’Ottocento, passa indenne regimi e governi, riscuote un crescente successo. Il successo di quelle mafie è dovuto alle relazioni con coloro che come compito hanno quello di contrastarlo. Mi spiego meglio: quando una forma di violenza invece di porsi in contrapposizione frontale con lo Stato, si mette in collaborazione, stabilisce relazioni con coloro che dovrebbero fronteggiarla. Di qui la ragione del successo. Le mafie sono l’unica violenza popolare che ha avuto successo, perché a differenza dei briganti, dei banditi e dei pirati, non si è contrapposto alle forze istituzionali; al contrario ha stretto relazioni. I mafiosi sono violenti che vivono dentro la società, dentro le istituzioni, dentro l’economia. Ecco il motivo del loro successo. Hanno imparato la lezione dei briganti: che alla fine, dovevano nascondersi, trovare rifugio sulle montagne; se in qualche modo facevano dei soldi, non potevano reinvestirli nel loro paese comprando casa; invece, i mafiosi prendono soldi e li reinvestano nell’economia, nella società senza problemi. I mafiosi sono stati impuniti per più di un secolo e mezzo: una impunità dovuta non tanto alla loro forza intrinseca; piuttosto dalle relazioni con chi avrebbe dovuto sconfiggerli, reprimerli, metterli in galera. Abbiamo seriamente cominciato a contrastare le organizzazioni mafiose dopo la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino; ma stiamo parlando di un secolo e mezzo dopo la nascita di queste organizzazioni. Sfido, in tutta la storia dell’umanità, a trovare una forma di violenza contro lo Stato che abbia avuto un margine di un secolo e mezzo di totale impunità”.

Lei quando parla di mafia si riferisce a Cosa Nostra siciliana, la ‘ndrangheta calabrese, la camorra napoletana o campana. Tre specifiche forme di delinquenza organizzata. E sostiene che solo dopo le stragi di Capaci e di Via D’Amelio si è reagito; ma per i cent’anni precedenti si è convissuto. Quindi, smentisce anche quel luogo comune, secondo il quale Mussolini ha estirpato la mafia: Cesare Mori, il “prefetto di ferro”, va in Siciliamette a ferro e fuoco l’isola, opera al di sopra e al di là anche delle leggi esistenti all’epoca, poi a un certo punto, viene fermato. Questo significa che la mafia riesce a convivere anche con il fascismo; diventa parte del regime; per questo “il prefetto di ferro”, viene fermato.

Sales: “È così. È assolutamente così. Nel senso che noi abbiamo diversi momenti storici nei quali le mafie sembravano alle corde. Per esempio, con l’Unità di Italia. Era un regime nuovo; era un regime che lasciava presagire, almeno nelle intenzioni, di fare piazza pulita con tutti i legami borbonici, o filoborbonici, compresi quelli mafiosi; dopo il fascismo le mafie, indubbiamente, avevano ricevuto un colpo, almeno le mafie più violente, quelle più, come dire, evidenti e all’inizio della modernizzazione del Paese, cioè dopo gli anni Cinquanta e Sessanta. In questi tre momenti storici, le mafie che sembravano in difficoltà, invece, sono riuscite a superare queste difficoltà.
Vediamo la prima: lo Stato italiano, al posto di relegare le mafie, come dire, a qualcosa che restava al vecchio regime borbonico, le hanno legittimate ancora di più. Per cui, la tesi storica per la quale le mafie sono un prodotto del regime borbonico e non hanno niente a che fare con l’Unità di Italia, viene smentita; l’Unità di Italia ha dato alle mafie una legittimazione e una forza che non avevano prima sotto il regime borbonico. Il fascismo indubbiamente, perseguita la parte più violenta delle mafie; al tempo stesso, istituzionalizza la violenza; una parte di quei violenti mafiosi hanno così due opportunità: stare con la mafia, o stare con lo Stato; una parte di questi, si inseriscono profondamente dentro lo Stato lasciando anche l’appartenenza alle mafie. Quindi, il fascismo colpisce alcuni settori della mafia, ma consente ad altri settori di istituzionalizzarsi. Non per nulla dopo la fine del fascismo, le mafie riprendono la loro forza e abbiamo la legittimazione del secondo dopoguerra. Una legittimazione che avviene attraverso l’anticomunismo. Nel mio libro riporto l’affermazione di un dirigente americano: “meglio ladri e mafiosi che comunisti”. Fu un prezzo pagato alla lotta anticomunista: se il nemico erano i comunisti, tutti coloro che erano schierati contro i comunisti andavano sostenuti. La DC lo fa in modo egregio. Quindi, nel periodo di massima difficoltà, le mafie trovano sempre un aggancio dentro le forze dello Stato, dentro le forze delle istituzioni, che le fanno superare questa loro difficoltà. Per tornare alla sua domanda: il fascismo, rispetto ai regimi precedenti, aveva fatto di più nella lotta alla mafia; al tempo stesso, molti violenti trovano agevole inserirsi nel regime, capiscono che la loro violenza può essere utile al regime.”

Infatti, Cesare Mori, a un certo punto, viene promosso e rimosso, lo nominano senatore del Regno, lascia la Sicilia, la lotta alla mafia finisce. Diciamo che aveva superato la soglia consentita…Ecco, lei ha concentrato la sua attenzione soprattutto sul fenomeno mafia-Cosa Nostra, la mafia siciliana, ben diversa dalla ‘ndrangheta calabrese, e dalla camorra napoletana o campana. Oggi, un po’ tutti gli studiosi e anche gli investigatori ci avvertono che la mafia calabrese, è la più pericolosa, la meno visibile, ma anche la meno permeabile, rispetto alle altre due organizzazioni mafiose. E’ d’accordo con questa analisi, e perché, se è d’accordo, la mafia calabrese è la più pericolosa tra quelle esistenti attualmente?

Sales: “Sono assolutamente d’accordo, anche se io nel libro provo a fare una storia unitaria delle tre mafie, qualcosa che finora non è stato fatto se non qualche tentativo: da Enzo Ciconte o John Dickie, per esempio: anche lorohanno tentato di fare una storia unitaria delle tre mafie. La domanda che mi sono posto è questa: se contemporaneamente, all’inizio dell’Ottocento, nascono tre mafie, nello stesso territorio dominato dai Borbone, qualcosa di comune devono pur averlo; e questo qualcosa sono le carceri. Ho trovato che la camorra napoletana dà, in qualche modo, il modello alla mafia siciliana e alla ‘ndrangheta calabrese: gli dà il linguaggio, i riti, un metodo. Tant’è vero che ancora oggi, nella ‘ndrangheta calabrese si giura, si fanno i riti come all’inizio dell’Ottocento; in quei riti, si parla di camorra: i gradi maggiori all’interno della ‘ndrangheta sono i gradi di camorrista, e di “picciotto di sgarro”. Si coglie un’assoluta continuità nel linguaggio e nei riti. Poi, queste tre forme criminali che hanno in comune il metodo, che noi, per comodità definisco violenza di relazione. Qual è il segreto del loro successo? È che la violenza la mettono al servizio delle “relazioni”. Non è una violenza che separa dalla società, o dall’istituzione. È una violenza di integrazione nella società e nelle istituzioni. Il metodo mafioso è contare con la violenza, essere potente con la violenza sia nel mondo criminale, sia in quello fuori da quel mondo. Questo è comune a tutte e tre le mafie. Poi nel tempo cambiano i rapporti, e anche il peso; ma è indubbio che il fenomeno più inquietante, più significativo, è quello della ‘ndrangheta calabrese: nel Novecento la forza della mafia siciliana è dovuta anche alle relazioni che aveva con Cosa Nostra americana. La proiezione internazionale della mafia siciliana si deve al ruolo, alle relazioni, al rapporto con quella americana. La ‘ndrangheta, invece, per quasi centocinquant’anni è stata silente, nessuno nelle istituzioni la prendeva in seria considerazione: forse c’era troppa attenzione per le grandi città meridionali, Palermo e Napoli; in Calabria non c’è una grande città dello stesso livello. Forse i calabresi avevano un metodo in qualche modo più sobrio, meno clamoroso. Sta di fatto che una criminalità, nata all’inizio dell’Ottocento, come mafia e camorra, fino alle soglie del 2000, non è oggetto di repressione, e attenzione. Come sia stato possibile che quella che oggi è considerata una delle forme di criminalità più importanti al mondo sia stata lasciata in pace per quasi centocinquant’anni è un assurdo…”.

Come se lo spiega, scusi?

Sales: “Me lo spiego così: Napoli e Palermo facevano più ‘opinione’. La Calabria viveva più nell’ombra e, in questa ombra mediatica ha approfittato anche la ‘ndrangheta”.

Questo può valere per me che sono un cittadino che accende la televisione, che legge il giornale, e rimane turbato dalla notizia di un omicidio a Piazza Politeama a Palermo, o a Lungomare Caracciolo di Napoli; per un investigatore dovrebbe essere diverso, e anche per un analista, uno studioso… Come è possibile che sia sfuggita la ramificazione di un’organizzazione criminale che è arcaica nei suoi riti, nelle sue modalità eppure modernissima: opera in Australia, in Canada, in Sudamerica, in Germania, in mezz’Europa? Com’è che sfugge? O sono complice, o sono babbeo

Sales: “È la prima. La ‘ndrangheta è l’unica forma criminale mafiosa che ha intrecciato un rapporto con la massoneria: un rapporto fortissimo con la massoneria; cosa che non si è verificata con la camorra, e ha avuto minore influenza con la mafia siciliana. La criminalità ‘ndranghetista capisce l’importanza di avere relazioni stabili segrete in un luogo che, in qualche modo, può essere un luogo di tutela. Ecco, noi abbiamo due fenomeni storici incomprensibili: quello della ‘ndrangheta calabrese che beneficia da una parte di una scarsa attenzione mediatica, dall’altra gode di una sorta di tutela grazierelazioni con servizi segreti e con la massoneria. L’altro fenomeno è il clan camorrista dei casalesi: rappresentano quelli che in Sicilia hanno rappresentato i corleonesi; prima di Roberto Saviano e delle indagini dell’inizio degli anni 2000, dei casalesi non si sapeva quasi niente. Chi ha deciso di mandare a Caserta i peggiori investigatori, i peggiori prefetti, i peggiori questori, come se fosse stato un luogo tranquillo e non il luogo di nascita di una delle criminalità più importanti in Italia e, poi, nel mondo? Chi ha deciso di non mandare i migliori investigatori in Calabria negli anni decisivi dell’accumulazione mafiosa calabrese e anche della sua forza? Ecco, sono le ombre della nostra Repubblica. Sono le ombre della nostra storia. Nel libro provo a dire che non comprendiamo le mafie se non le inseriamo dentro la storia italiana, dentro la grande storia dell’Italia. Se le mafie hanno avuto un successo come quello che stiamo registrando, questo ha a che fare con le decisioni della politica, con le decisioni delle istituzioni. La storia non è fatta solo di capi di Stato, di capi di governo, di ministri, di forze politiche. E’fatta anche di uomini come Raffaele Cutolo, come Totò Riina, come Bernardo Provenzano. Ci può piacere o no, sono parte della storia italiana: sono forze criminali che hanno influenzato le decisioni della Repubblica; sono state determinanti ai fini di alcuni fatti politici significativi: pensiamo la fine dell’Ottocento, con tanti siciliani che governano e sono capi di governo; all’epoca il voto siciliano era fondamentale per gli equilibri della nazione. Ma anche oggi la Sicilia gioca un ruolo fondamentale negli equilibri politici del Paese. Oppure pensiamo alla cosiddetta “corrente del Golfo” napoletana, ai rapporti che avevano con Cutolo e i suoi avversari della “Nuova Famiglia”; ma pensiamo anche al caso Cirillo… Insomma tutto si può fare tranne che fare, dei mafiosi e di questi criminali una storia a parte. La storia delle mafie noi dobbiamo cominciare a vederla come storia della nazione, perché esse hanno avuto un’influenza sulla storia della nazione molto al di là di quello che noi immaginiamo.”

Sempre per seguire questo affresco. Finora abbiamo parlato di Campania, di Calabria e di Sicilia. C’è una poesia che risale, credo, a fine degli anni Cinquanta o a inizio anni Sessanta di Leonardo Sciascia, che si intitola “La palma si sposta verso nord”; Sciascia osserva con questa metafora che ogni anno, due o tre centimetri, la palma mafiosa va verso settentrione. Altro che un paio di centimetri, si potrebbe dire. Ha oltrepassato le frontiere di Chiasso da quel dì. Però infiltrazioni sia di ‘ndrangheta, di mafia, di camorra, mi pare, che sono riscontrabili, ormai pressocché, in tutte le regioni di Italia, al punto che non solo dei comuni calabresi, dei comuni campani o dei comuni siciliani vengono sciolti per infiltrazioni o inquinamento mafioso, e sono comuni in Piemonte, in Liguria, in Lombardia… Ecco, possiamo dire, la mafia insegue il denaro e dobbiamo, forse, cominciare a lavorare sulle piste del denaro e scontiamo il fatto di non aver sufficientemente seguito queste piste?

Sales: “Assolutamente sì. Noi abbiamo seguito piste antropologiche sulle mafie. L’Italia si è molta soffermata sul perché avevano successo le mafie e ha voluto darsi una spiegazione di comodo: la mentalità dei meridionali, confondendo l’1 per cento della popolazione meridionale con il 99 per cento…”.

Scusi che la interrompo. Mi sento il dovere di dirlo, a proposito del pregiudizio cui ha fatto cenno. Bisognerebbe ricordare più spesso che lo sterminato elenco di morti uccisi dalla mafia o dalle mafie, quasi tutti sonosiciliani o campani o calabresi; questi caduti smentiscono questo luogo comune. In questo lunghissimo elenco forse l’unico che forse non è siciliano, calabrese o campano è il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa…

Sales: “E forse Ambrosoli… Dalla Chiesa e Ambrosoli”.

Ha ragione, mi riferivo solo a quelli caduti nelle tre regioni classiche…Mi scusi per l’interruzione.

Sales: “No, mi fa piacere di questa interruzione: mi offre lo spunto per una riflessione: nel Sud ci sono le mafie, ma ci sono una quantità di persone che le hanno combattute, e si smentisce questa idea di una complicità di massa della popolazione meridionale con le mafie; la gente non parla quando ci sono delitti, ma è avvenuto anche durante il terrorismo nelle regioni del Nord, o nella stagione dei sequestri di persona…Nel libro faccio degli esempi di come i magistrati dovettero ricorrere al sequestro dei beni delle famiglie perché non collaboravano, o di come durante gli anni di piombo non abbiamo scoperto nessun terrorista con la collaborazione della popolazione. Negli Stati Uniti non c’è stata necessità della collaborazione della popolazione per sconfiggere Al Capone, o a Marsiglia per neutralizzarei marsigliesi. Quando lo Stato deve fare la sua parte non può fare affidamento sulle denunce dei cittadini: le denunce vengono quando si riprende fiducia. Non possiamo invertire l’ordine dei fattori, per cui le mafie devono essere sconfitte dalle popolazioni; le mafie devono essere sconfitte dallo Stato, e se lo Stato fa la sua parte, dà fiducia alla popolazione. Tanto è vero che, oggi, si collabora nel Sud, come mai era avvenuto prima: hanno visto che lo Stato comincia a prenderli, non lascia che siano latitanti per tanti anni, li sconfigge, fa i processi. Ma l’idea “culturalista” delle mafie, la chiamo così nel libro, l’idea cioé che le mafie abbiano a che fare con un fatto genetico, di mentalità è una forma di razzismo e basta. Il Nord non ha capito le mafie perché è stato dominato dalla cultura leghista; mi ricordo una dichiarazione di un esponente leghista: “Le mafie sono espressione del centralismo”. Sciocchezze di questo tipo hanno dominato per anni. Non si sono accorti che le mafie sono quello che sono, sodalizi che fanno soldi con la violenza, si vogliono arricchire con la violenza. Non si sono accorti di quello che avveniva e avviene. C’è un delitto clamoroso, quello del procuratore Bruno Caccia a Torino, nel 1983: se non ricordo male è stato il primo delitto di mafia al nord. Ma tutti negavano che la mafia ci fosse, al nord: questori, prefetti, i magistrati di Torino, di Milano, dell’Emilia, della Toscana, dell’Umbria: tutti a negare l’evidenza, che le mafie sono esportabili, non sono un prodotto che può vivere solo ad una certa latitudine. Ecco la metafora di Sciascia è eccezionale. Non sono palme e, ammesso che siano palme, abbiamo visto che le palme possono vivere benissimo anche a Nord…”

Salgono

Sales: “Salgono. Io ho trovato una dichiarazione addirittura di Luigi Sturzo dell’inizio del Novecento, che dice la stessa cosa di Sciascia. I siciliani che hanno capito cos’erano le mafie, hanno previsto che, prima o poi… Sturzo dice che la mafia avrebbe scavalcato le Alpi e quindi anche…”.

A quando risale quest’affermazione?

Sales: “All’inizio del Novecento”.

Aveva la vista lunga

Sales: “Sciascia è profetico, perché è un siciliano attento, comprende quello che è elementare: una cosa è il radicamento delle mafie, un’altra è l’espansione delle mafie. L’espansione delle mafie non può che avvenire fuori dai loro territori, inseguono la ricchezza, la riciclano e hanno trovato un luogo favorevole ai loro investimenti nel mondo economico settentrionale. È lo stesso problema che si pose negli Stati Uniti. Quanto cominciarono i fenomeni mafiosi negli Stati Uniti, all’inizio pensarono: “È un problema dei siciliani, degli italiani”. Non capivano che se c’è un’offerta di servizi mafiosi, ci dev’essere anche una domanda, e la domanda non veniva da italiani, veniva dagli americani. Nel Nord, l’offerta mafiosa è meridionale, ma la domanda di quei servizi è settentrionale. E, quindi, perché non andare a vedere dentro coloro che, pur sapendo di aver a che fare con un mafioso decidono di aver con loro dei rapporti? Perché non andare a vedere quello che hanno fatto molti imprenditori del Nord che, per abbassare i costi dei rifiuti tossici, hanno affidato alla camorra lo smaltimento per risparmiare. Io credo che c’è un lato oscuro dell’economia italiana che le mafie mettono in mostra.”

A proposito di lato oscuro e di economia, italiana e non solo italiana: è noto che il mercato della droga è gestito, controllato, dalle organizzazioni criminali mafiose. Ne hanno ricavato enormi ricchezze. Questa enorme disponibilità finanziaria si traduce in un enorme potere e possibilità di controllo di governi, istituzioni, interi parlamenti. Come se ne esce? Con lalegalizzazione? Con ancora maggiore repressione? Qual è la sua opinione?

Sales: “Io ho cercato di fare una fotografia del fenomeno, e ho riscontrato questo dato: che in nessun momento della lunga storia delle mafie, i mafiosi sono stati così ricchi come oggi. Ci sono stati boss, forse più importanti degli attuali, con un’attitudine al comando e alla violenza, forse anche maggiore; in grado di esercitare sulla società un dominio più ramificato; comunque mairicchi come questi. E non esiste un “affare” che si sia rivelato così redditizio come quello della droga. A suo tempo il contrabbando di alcool negli Stati Uniti ha prodotto risorse consistenti, comunque non paragonabili con quelle procurate dalla droga; un mercato, basato come tutti i mercati, sul rapporto domanda ed offerta. Con la differenza che c’è una richiesta fortissima di droga, e l’offerta illegale consente di alterare il rapporto di mercato come nessun’altra merce al mondo: noi abbiamo altre “merci” dove il guadagno è uno, due, cinque, dieci, ma mai raggiunge i livelli della droga: il mercato illegale consente una variazione di prezzi impressionante”.

Se lei fosse un mafioso, ovviamente sarebbe un sostenitore del proibizionismo…

Sales: “Se fossi un mafioso sarei proibizionista: mi conviene, non c’è dubbio; l’illegalità consente un margine di guadagno che il mercato normale non dà, non darà mai. Dal punto di vista dello storico, non posso che constatare come l’attuale situazione renda i mafiosi ricchissimi, in grado di condizionare una parte consistente dell’economia e della finanza mondiale, di condizionare Stati e governi. Non riferisco nessuna straordinaria novità. Siamo al punto, è bene ricordarlo, che alcune banche, nella crisi del 2007-2008, sono state salvate dai narcodollari. Lo sostiene un dirigente dell’ONU, non io, che semplicemente riporto quello che lui dice. Alcuni Stati sono stati salvati dall’afflusso di narcodollari; da lì sono finiti nella Banca Vaticana, e sono girati nelle principali banche italiane. Bene: se accettiamo tutto ciò, allora non si faccia niente. Ma se noi pensiamo che bisogna tagliare questa opportunità straordinaria che il proibizionismo ha dato alle mafie, allora si intervenga su quel terreno. Non discuto lo strumento, non spetta a me farlo. Quello che è inaccettabile è offrire a quei criminali, grazie al proibizionismo, un peso economico di questa potenza. Questo è assolutamente inaccettabile”.

Quindi, in ogni caso, no allo status quo…

Sales: “La cosa importante è non far fare soldi alle mafie con il commercio delle droghe”.

Senta, può apparire datato, ma “Il giorno della civetta” di Leonardo Sciascia continua a essere una sorta di “livre de chevet”; e c’è una certa pagina che dovrebbe essere una stella polare: quella dove il capitano Bellodi, questo capitano dei Carabinieri che viene da Parma, si trova a che fare con Mariano Arena, il mafioso del paese siciliano; Bellodi è tentato di usare gli stessi strumenti di Mori: andare oltre la legge, perché si accorge che questo mafioso gli sta sfuggendo tra le mani; ha questa tentazione, poi dice che no, qui bisogna usare le armi del diritto, le armi della legge; perché se non usiamo la legge, il diritto, si diventa come i mafiosi. Quindi: diritto, legge. E’ una pagina esemplare che dovrebbe essere diffusa nelle scuole, dovrebbe essere portata a tutta la conoscenza…

Sales: “Sono assolutamente d’accordo, tanto è vero che in quest’università insegno storia delle mafie. La prima cosa che dico agli studenti prima di cominciare il corso: “Leggete un libro di Sciascia. Sceglietene uno qualsiasi, non è importante, “Il giorno della civetta” o un altro… anzi, se vi hanno costretti alle scuole medie o nelle superiori a leggere “Il giorno della civetta”, voi probabilmente lo odierete; quindi rileggetelo, a un’età più matura vi renderete conto che è un capolavoro; io posso dirvi mille cose sulla mafia, ma Sciascia le ha dette meglio di me, in forma narrativa e in forma esemplare. Ecco, dico questo ai miei studenti. “Il giorno della civetta”, come “Una storia semplice”, “A ciascuno il suo”, o “Todo modo”… tutti i libri di Sciascia ruotano attorno all’ossessione delle mafie, da meridionale consapevole che si guarda attorno (Sciascia applicava la teoria di Tolstoj: parla del tuo paese e capirai il mondo, parlerai del mondo). Lui guarda il luogo dove è nato, vede Calogero Vizzini a braccetto con il Presidente del Tribunale, con il procuratore capo, con il mondo della Chiesa… mafiosi e preti sono l’ossessione di Sciascia, come se ci volesse dire: “Una Chiesa diversa avrebbe potuto fare molto di più contro le mafie”. La pagina che lei ricordava prima è importante: ci sono due o tre siciliani, che hanno capito quest’importanza storica della ricchezza. Il primo, fu forse Pio La Torre, che presenta una legge che consente di combattere la mafia attraverso la ricerca della ricchezza; il secondo è Sciascia; il terzo è Falcone; tre siciliani che comprendono quello che altri non vogliono comprendere: la mafia è violenza per arricchirsi, per avere potere; non esiste un mafioso che non cerca la ricchezza: la ricchezza è l’essenza stessa della mafia, è un fattore identitario; loro, da siciliani, questo lo comprendono, e la loro è una lezione fondamentale anche per l’oggi. Noi continuiamo a immaginare che i mafiosi abbiano un consenso perché la gente è d’accordo con loro, perché c’è la stessa mentalità nei quartieri in cui loro dominano. No! I mafiosi hanno successo quando riescono a far vivere dell’economia illegale una parte della popolazione. A Napoli c’è un quartiere particolarmente disagiato, Scampia, dove si faceva, si fa traffico di droga alla luce del sole: le piazze dello spaccio erano sui marciapiedi, per le strade, in pieno giorno. Ebbene, lì, il consenso alla camorra è dovuto al mondo che gira attorno al traffico della droga: chi la spaccia, chi la vende all’ingrosso, quindi le migliaia di persone che sostengono i camorristi, li sostengono per ragioni economiche. Dobbiamo spezzare questo rapporto economico di consenso. Alla fine dell’Ottocento in alcune organizzazioni di lavoratori c’era la clausola esplicita che non si potevano iscrivere affiliati a clan mafiosi; immaginate all’inizio dell’Ottocento una cosa del genere. E nei tribunali la gente testimoniava contro i mafiosi, in proposito ho portato alla luce, dagli archivi, cose importantissime… Tutti i movimenti per la terra in Sicilia avevano anche un risvolto antimafioso. Ma quando ti ammazzano decine e decine di persone, e nessuno viene colpito, arrestato, quando nel secondo dopoguerra ben cinquanta segretari di Camera del Lavoro, di cooperative, sindacalisti, vengono ammazzati senza che nessuno vada in galera, come si può pretendere il coraggio?”.

La pista del denaro, tanto per cambiare…

Sales: “Appunto. Quando a Marsiglia decidono di sconfiggere il clan dei marsigliesi non chiedono il sostegno della popolazione, piuttosto fanno determinate operazioni per ridimensionarne il ruolo. Le mafie si possonobattere. Non è un esercito che occupa un territorio con le armi. Tutto sommato, i mafiosi non sono più di diecimila persone: diecimila in un Paese di sessanta milioni di abitanti… Quindi le mafie non sono un problema militare, non occupano un territorio con le armi. Lo occupano attraverso le relazioni. Qual è la soluzione per rompere queste relazioni? Il giorno in cui le mafie rompono le relazioni con la politica, o meglio: la politica rompe le relazioni con le mafie, ecco che diventano criminalità comune; e come tutte le forme di criminalità possono essere sconfitte”.

Sales, nella classe politica italiana la scorge questa “voglia”, questa volontà di operare nella direzione che ha appena indicato?

Sales: “Ci sono reazioni molto diverse. Da una parte il sistema politico che è consapevole che bisogna mettere fine a questa lunga storia di relazione con le mafie; c’è però una parte del ceto politico che formalmente dice di sì, ma nella sostanza non si comporta come sempre. Nel corso degli anni, alcuni politici hanno avuto relazioni con le mafie pensando che, prima o poi, le potevano scaricare; pensavano di servirsene, e poi scaricarle. È la situazione, forse, della DC siciliana, campana e calabrese. Poi sono rimasti invischiati in questa relazione. Chi comincia ad avere rapporti con le mafie, difficilmente ne può uscire con un atto volontario. La storia di Salvo Lima è emblematica. Ma c’è un punto controverso nella storia politica d’Italia che è la corruzione. Prendiamo il caso di Roma: il caso è interessante perché non parliamo di una mafia romana emanazione di una delle tre, la calabrese, la siciliana o la campana. Qui parliamo di una mafia autoctona. Nessuno poteva immaginare che ci fosse una mafia autoctona a Roma, con quelle caratteristiche, una sua forza di controllo del territorio, di intimidazione e una sua forza di consenso. No entro nel merito della vicenda. Quello che noto è che si sottovaluta il peso della corruzione come elemento legittimante delle mafie. Ora, chi è corrotto, non necessariamente è mafioso. Ci può essere la corruzione senza mafie. Ci sono parti del mondo dominate dalla corruzione dove non ci sono le mafie. Ma non esiste nessun caso in Italia dove esistono mafie senza corruzione. I mafiosi nelle istituzioni vanno d’accordo con coloro che usano la corruzione come metodo dell’agire politico. I mafiosi non attaccano l’insieme del sistema politico, si rivolgono a coloro che nelle istituzioni hanno un loro modo uguale di sentire. Che cosa accomuna i corrotti ai mafiosi? L’idea che ciò che pubblico può essere privatizzato e che quello che è di tutti può essere reso disponibile o attraverso il voto o attraverso la violenza. È la corruzione l’elemento, oggi, che unisce il sistema politico al sistema mafioso. La corruzione è l’elemento che unisce, oggi, le mafie in espansione con la politica, ma i politici non vogliono sentirselo dire. Pensano che si può essere corrotti senza necessariamente esporre le istituzioni alla penetrazione mafiosa, per cui posso semplicemente dirle che dovunque c’è corruzione prima o poi arrivano le mafie”.

(trascrizione non rivista dall’autore)

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