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Conversando con il prof. Aldo Masullo

Intervista di Valter Vecellio
Napoli, 19 marzo 2015

Valter Vecellio intervista il professor Aldo Masullo, professore emerito di Filosofia morale dell’Università Federico II di Napoli.

L’intervista è stata registrata giovedì 19 marzo 2015 alle ore 15:00.

Nel corso dell’intervista sono stati discussi i seguenti temi: Associazioni, Croce, Cultura, Destra, Docenti, Fascismo, Filosofia, Intellettuali, Liberalismo, Napoli, Napolitano, Pci, Politica, Rosi, Silone, Storia, Università.

Fonte: Radio Radicale

Professor Aldo Masullo, questa volta cominciamo dal 1951: quando in Europa, e anche in Italia, si costituisce “l’Associazione per la Libertà della Cultura”; tra i suoi animatori e aderenti il meglio della cultura dell’epoca: Benedetto Croce e Ignazio Silone, per fare due nomi; ma la lista è lunghissima… ne faccio altri quattro: Guido Calogero, Nicola Chiaromonte, Mario Pannunzio, Ernesto Rossi… Persone che hanno dato tanto a questo Paese e non solo all’Italia; e tuttavia è come se il loro ricordo, quello che hanno fatto, si scolori; si fa sempre più fatica, per esempio, a trovare i loro libri. Per fortuna ci sono ancora piccole case editrici che pubblicano le loro opere; ma non è facile trovarle…Credo sia importante mantenere vivo il ricordo di quello che erano e hanno fatto. Lei professore, che ricordo ha di quegli anni? Può darci un po’ quell’atmosfera, il “sapore” di quei giorni… 

Aldo Masullo: “Per quello che io riesco a ricordare (dico “riesco” perché ricordare non è un’operazione automatica: è una faticosa ricostruzione; può richiedere a volte pochi minuti, ma è sempre una ricostruzione che ogni volta facciamo in noi stessi: la ricostruzione di un passato che, si voglia o no, è lontano). Dov’ero in quegli anni, che ricordo ne ho… Nel 1951 ero sposato da un anno, ed ero assistente ordinario di Storia della Filosofia all’Università di Napoli. Il mio Maestro, lo ricordo con grande affetto, era Cleto Carbonara: docente di Storia della Filosofia, di origini lucane, ma di fatto napoletano. Aveva cominciato come professore di liceo, poi, vinto il concorso di professore universitario, era stato a Catania e nel ’50 era tornato a Napoli. Carbonara (lo ricordo in modo particolare in relazione alla domanda che mi avete fatto), era un intellettuale di formazione socialista; nell’immediato dopoguerra, nella grande, diciamo, infatuazione per questa o quella bandiera, si era iscritto al PCI; è stato anche consigliere comunale di Napoli. Nella sua attività politica, portava tutta la “semplicità” e l’ingenuità di un professore di filosofia. Ricordo che si batté moltissimo per le varie cause pacifistiche che si animavano in quegli anni; e aveva un forte ascendente sui suoi allievi. Io, in verità, per mio temperamento, sono stato sempre un poco intellettualmente schivo; mi spiego: sono sempre stato piuttosto attento a non aderire emotivamente a parole d’ordine, richiami, che potevano anche essere giusti; ma che, per il fatto stesso di essere parole d’ordine e richiami, suscitavano in me una certa resistenza…”.

Allora, era già iscritto al PCI? 

Masullo: “Partecipavo, dal punto di vista morale, ad alcune delle campagne pacifiste, antimilitariste; soprattutto, ero assorbito dai miei studi, se vuole dall’ansia di fare carriera, del resto ero ancora abbastanza giovane, e ci davo dentro. Aggiungo che Napoli, in quegli anni, era un vivaio di iniziative politico-culturali o cultural-politiche; tutte cose importanti, ma politicamente “segnate”: eravamo circoli nati sotto l’egida marxista; e contrapposti c’erano circoli di destra, conservatori… C’era un dibattito vivacissimo; e si andava via via delineando uno scontro destinato a scoppiare: da una parte il lato reazionario, conservatore della società napoletana; e quello che, viceversa, era quello innovatore, di “rottura”. Naturalmente, queste due connotazioni contrapposte non è che si potessero definire in maniera precisa, perché c’era un sovrapporsi di altri elementi che poi frammentavano queste due posizioni estreme. Ho nitido il ricordo di questo confronto e dibattito, era molto forte tra i giovani. Il dibattito era politico-culturale, però in alcuni momenti, in alcuni luoghi, prevaleva il lato politico; in altri luoghi quello culturale.”

C’era Benedetto Croce, ma c’erano anche un giovane Giorgio Napolitano, il cosiddetto gruppo del Liceo Umberto i cui componenti prenderanno varie strade, ma nei loro campi diverranno dei protagonisti: Francesco Rosi, Giuseppe Patroni Griffi, Antonio Ghirelli, Raffaele La Capria, Luigi Compagnone… Insomma, Napoli in quegli anni era un bel centro di tensione morale e culturale.

Masullo: “Avete citato Napolitano…Era uno dei giovani che costituivano, all’interno del PCI, un elemento di grande forza culturale e intellettuale. Ma non c’era solo lui nel PCI ad avere una notevole levatura culturale. E, d’altra parte, nell’università c’era un forte arroccamento da parte di un gruppo di anziani professori: un arroccamento di destra, di grande preoccupazione nei riguardi di una possibile vittoria del PCI; per fare un esempio, il mio Maestro Carbonara, all’interno della facoltà, in qualche modo fu sempre osteggiato dalla maggioranza dei suoi colleghi, di destra. Si può dire che nelle piazze e nei circoli era più visibile lo scontro tra le diverse posizioni diverse; al contrario, nelle grandi istituzioni, come nell’università, lo scontro era meno percepibile dal grande pubblico; ma nella sostanza forse era molto più forte. Per quel che mi riguarda, come ho detto, in quegli anni ero più impegnato nella carriera di studioso, la politica veniva dopo. Quando era necessario, o se ne presentava l’occasione, anch’io manifestavo ed esprimevo le mie posizioni: un progressismo razionale, critico; ma in fondo un contributo attivo alla vita politica, in quel periodo, non lo davo. Ero piuttosto interessato a rafforzare un certo tessuto discorsivo nel rapporto con gli studenti o con i giovani colleghi; quello che mi attraeva non era tanto la partecipazione alla vita di un partito politico, o a quella di un circolo politico-culturale; quello che mi attraeva e mi interessava era tessere un rapporto di ricerca e costruzione, anche politica, con i singoli individui, nella formazione di piccoli gruppi. Forse perché ero anche interessato, come del resto sono sempre rimasto, da quel passaggio del simposio platonico, dove Platone dice che le piccole comunanze, le piccole comunità, le “koinonia”, sono quelle che producono grandi virtù e grandi pensieri; e per questo sono quelle più mal viste dai tiranni. Mi rendevo conto, non so se a ragione o a torto che, nell’urto fra grandi forze organizzate, quello che valeva la pena, se si voleva costruire qualche cosa di veramente significativo per il futuro, non era l’aderire a questa o a quella forza; piuttosto costruire nuclei di pensiero… Ecco, qui è il caso di ricordare la libertà della cultura. Che cosa distingue l’ideologia dall’idea? L’ideologia è un’idea “commercializzata”, un’idea che diventa slogan, che ha perso la sua freschezza critica; un’idea che spesso diventa anche un paravento. Al contrario, se si vuole evitare che la cultura si sclerotizzi, diventi uno strumento della politica, occorre alimentare questi nuclei di pensiero libero. Era quello che mi interessava in quel periodo. Poi sono venuti tempi più tempestosi: gli scontri , anche fisici, nel decennio successivo: all’Università di Napoli cominciano le irruzioni dei fascisti, ci sono scontri con gli studenti e con i giovani professori… La situazione muta: dagli scontri di grandi blocchi ideologici che comunque lasciavano spazi per la costruzione di discorsi “minimi” (e nella loro “minimalità”, più fecondi), si passa a scontri di carattere più massicci, molto più invadenti… E si arriva agli Sessanta, agli anni Settanta: quando viene eletto presidente della Repubblica Giovanni Leone, napoletano, persona degnissima. Alla sua elezione però concorrono anche i fascisti, e la cosa suscita una serie di allarmi. Quindi noi nel giro di una ventina d’anni, dal ’50 da cui siamo partiti, agli anni ’70, ci troviamo al centro di un processo di profondo cambiamento; non ce ne accorgiamo subito, ma si tratta di un profondo cambiamento della situazione sociopolitica italiana. Non va dimenticato che tra il ’50 il ’70, c’è stato il ’60. Quel particolare decennio è un momento chiave della storia politica italiana: è il decennio nel quale l’Italia approda a una cultura industriale completamente nuova: Olivetti, per esempio”.

Stiamo parlando di Adriano Olivetti… 

Masullo: “Sì, proprio lui. Era il decennio nel quale l’Olivetti era giunta a costruire, per la prima volta, un computer portatile. E’ in quel decennio che avviene una profonda rivoluzione che coinvolge e sconvolge gli apparati culturali, scientifici e tecnologici italiani; e la Olivetti viene praticamente soffocata da scelte politiche di carattere opposto, praticamente viene costretta a vendere i propri brevetti agli americani…”

Oltre ai computer, c’è la famosa utopia olivettiana: Ivrea, l’idea di fabbrica e abitazioni costruite con certi criteri per i dipendenti; la rivista di “Comunità”; lo sfortunato tentativo anche elettorale: credo di ricordare che venne eletto un solo parlamentare nella lista promossa da Olivetti, il sociologo Franco Ferrarotti…Insomma, c’era tutta una filosofia dietro quei computer, se così posso dire…

Masullo: “Sì: erano gli anni in cui, mentre sembrava che stesse esplodendo questa nuova capacità italiana di fare industria moderna, si realizzava in parallelo una contromossa politica. E’ il decennio in cui segretario della DC era Amintore Fanfani; e in quegli anni cominciarono a porsi il problema di come finanziare il partito. La risposta che si trovò era molto semplice: le industrie pubbliche, le industrie di Stato. Così l’industria di Stato diventa industria del governo, e naturalmente cessa di essere industria dello Stato. Di conseguenza nasce la casta dei boiardi: è chiaro che un partito che vuole utilizzare l’apparato industriale deve mettere a capo di quell’apparato persone di propria fiducia; magari anche di valore, ma di propria fiducia”.

Accadeva un po’ dappertutto, dalla RAI, all’IRI…

Masullo: “Un’invasione, una vera e propria invasione; un’occupazione massiccia dei centri di produzione, materiale e intellettuale, ad opera di un partito che via via, per conservare il potere deve consociare anche altri partiti politici…”

Una vera e propria spartizione con una sorta di patto: le case editrici, la cultura spettavano, al PCI, alla DC apparati statali e parastatali…  

Masullo: “Possiamo definirlo un periodo di scontro frenato, per una serie di ragioni che tutti conosciamo, di carattere internazionale. Però uno scontro c’era. Poi alla fine degli anni ‘70 questo scontro diventa complicità, sia pure mascherata in qualche modo…” 

Se si vanno a frugare gli atti e i documenti parlamentari, già negli anni Cinquanta, e dopo, se ne ricava che il 95 per cento delle leggi vengono approvate in Commissione e poi, magari, portate nell’Aula, ma maggioranza e opposizione sono in perfetta sintonia. C’era già allora il germe di una consociazione. Soci, più che avversari politici… Si potrà obiettare che sia inevitabile che alcune leggi siano il frutto di compromessi; però non di nascosto, alla luce del sole, di modo che tutti possano valutare, conoscere, giudicare…

Masullo: “Sì certamente… Ma una società come quella italiana è, se così si può dire “ipotecata” da due grandi forze politiche con forte strutturazione ideologica; una strutturazione che li rende capaci di essere non solo potere materiale, ma anche potere culturale; dunque è inevitabile che o si giunge a uno scontro decisivo, e in Italia questo scontro era impossibile per le ragioni che tutti conosciamo; o alla fine, non si può fare altro che arrivare a un “appeasement”. Stante la situazione in cui ci si trovava, e ci si trova ancora, era inevitabile. Ecco: credo che si possa concludere con questa riflessione: di fatto, in Italia, le posizioni minoritarie lo sono non in quanto gruppi minori, ma in quanto individui. Il caso della stessa Associazione per la Libertà della Cultura è il caso di personalità che si associano, senza aver dietro di loro partiti o movimenti. Semmai, piccole frazioni”.

Ci ritorneremo. Prima però vorrei conoscere la sua opinione su un fatto che spero di riuscire a descrivere compiutamente. Gli anni ‘70, che spesso sono cristallizzati in quella famosa foto che rappresenta un autonomo, il volto coperto da un passamontagna, che punta una rivoltella, una P-38, e fa fuoco. Se gli anni ’70 li si analizza con attenzione, ci accorgiamo però che non sono stati solo i cosiddetti ‘anni di piombo’, ma anche gli anni delle grandi riforme: Statuto dei lavoratori; legge sul divorzio; depenalizzazione dell’aborto; legge sull’affermazione di coscienza e niente più carcere per chi non vuole fare il servizio militare; voto ai diciottenni; il nuovo diritto di famiglia; abolizione del regime manicomiale… Probabilmente dimentico molte altre grandi conquiste. Tutte queste grandi cose oggi sembrano naturali come respirare, bere, mangiare: è normale che una coppia che non si trova più d’accordo si possa separare e si possano formare nuovi nuclei legali. All’epoca quelle cose oggi normali sono costate letteralmente lacrime, sudore e sangue. Bisogna anche ricordare che c’era l’opposizione ufficiale degli “apparati”: sia il grande partito al Governo, la DC; e spesso, quasi sempre, anche il grande partito di opposizione, il PCI. In quegli anni quell’enorme terreno di lotta politica lo si lasciò arare, per anni e anni, ai radicali e ad altre minoranze. Come si spiega questa incapacità del PCI di allora? Mostrava di non avere neppure fiducia nel suo stesso elettorato; i vertici pensavano che il loro elettorato non avrebbe capito l’importanza, il valore di quelle conquiste, di quelle battaglie; si temeva che quell’elettorato avrebbe potuto tradire il partito stesso, votare in senso opposto alle indicazioni del partito. Poi si è visto che è accaduto esattamente l’opposto, il contrario: sono stati gli elettorati democristiano e missino che non ha seguito le direttive dei vertici del loro partiti. Come si spiega questa cecità del PCI, e anche di buona parte di quella che allora veniva chiamata Nuova Sinistra, e di parte del mondo laico? Per farla breve: complicità o cecità, incapacità di capire e interpretare i fenomeni che erano in atto?

Masullo: “Direi che l’ideologia acceca. In questo senso: quando una forza politica è schiacciata dal peso di una ideologia, per quanto questa forza politica sia ricca di presenze progressiste, inevitabilmente sul piano ufficiale si afferma resistenza di carattere ideologico. Gli iscritti al PCI o comunque, gli uomini che per ragioni varie simpatizzavano per il PCI, erano la parte più insofferente della tradizione della società italiana, la parte più aperta alle novità. Una parte che appena si presentava l’occasione, non seguiva le direttive che venivano dall’alto, che erano accecate dall’ideologia. Voglio dire che la forza del giudizio popolare, la forza del giudizio di chi vive quotidianamente i propri dolori, le proprie sofferenze, è enormemente maggiore della forza di resistenza delle ufficialità ideologiche. Quindi noi abbiamo un gruppo dirigente che non può fare a meno di seguire l’indicazione della propria visione ideologica; dall’altra parte c’è un elettorato che, pur collocato nell’ambito della sinistra, ha una sua capacità di giudizio. Potrei dire che esistono due sinistre, una sovrapposta sull’altra: c’è una sinistra ufficiale, ideologica, organizzata secondo strutture di comando; e c’è una sinistra popolare, autentica, che obbedisce al proprio giudizio spregiudicato, ai propri bisogni, alla propria valutazione della vita così come si presenta quotidianamente”.

Non ha l’impressione di rivedere, oggi un film già visto. E’ vero che la storia non si ripete se non per caricature; però, anche oggi non ha l’impressione che nel Paese ci sia una richiesta di nuove libertà; e chi dovrebbe incarnare, essere il portavoce di queste nuove libertà, in realtà, se ne disinteressa, quando non le ostacola e le boicotta. A me sembra di vedere in questo tempo che viviamo, una sorta di ripetizione, ripeto, caricaturale, di un già vissuto. Parlo di caricatura perché cinquant’anni fa almeno c’erano persone come Palmiro Togliatti, Giorgio Amendola, Pietro Ingrao…Ora, insomma gli “attori” sono quelli che sono…tuttavia c’è la stessa indifferenza da parte di chi governa; e c’è la stessa sete di libertà oggi come allora, da parte di chi è governato, o per meglio dire sgovernato…

Masullo: “Con alcune differenze di carattere oggettivo: non possiamo non ricordare che gli anni ‘60 e ’70 sono gli anni in cui vi è una diffusione rapida di un benessere medio che rendeva gli individui molto più liberi, anche nella rivendicazione dei propri diritti. Oggi c’è la sofferenza, ma manca quella forza rivendicativa che, viceversa, potevamo riscontrare nelle masse nelle varie forme di aggregazione degli anni ‘60 e ‘70. Allora le classi più modeste avevano una forza molto maggiore di quanto non abbiano oggi rispetto ai propri governanti”.

Non so se la memoria mi tradisce… Lei ha partecipato una volta a una trasmissione, ‘Ballarò’…

Masullo: “Sì, ‘Ballarò’…”. 

Ecco, il ‘Ballarò’ all’epoca condotto da Giovanni Floris…In quell’occasione, cerco di riassumerne il senso, lei disse che viviamo un periodo per tanti versi drammatico, ma non più drammatico di altri, come per esempio gli anni dell’immediato dopo guerra; e questo è nei fatti, la situazione allora era infinitamente più grave e pesante. Poi però lei ha detto una cosa che mi ha molto colpito: ‘Eravamo più seri’…

Masullo: “Mi prende un momento alla sprovvista, adesso non ricordo se ho pronunciato proprio la parola ‘serio’…”. 

Credo di sì, me ne assumo la responsabilità: lei disse proprio: ‘Eravamo più seri’…

Masullo: “Bene, se l’ho detto, ho fatto bene a dirlo…Comunque, mi piace tornare su questo tema: è lo stesso tema che tratto ogni volta che mi trovo a parlare in luoghi dove ci sono giovani, per esempio le scuole… A loro dico che tra l’epoca nella quale essi vivono, e l’epoca nella quale sono vissuto io, più o meno quand’ero giovane come loro, ci sono analogie: nel senso che, allora, come oggi, noi siamo colpiti da grosse difficoltà di carattere materiale, economico: venivamo da una guerra, per di più perduta, anche se alla fine tutte le guerre sono sempre perdute…Comunque averle perdute è un’aggravante sul piano, degli effetti concreti…Oggi, veniamo da una crisi che non è tanto quella che tutti vedono e lamentano; secondo me stiamo vivendo una sorta di punto critico, di arrivo di una società autofaga: una società che divora se stessa; e ha cominciato a farlo a partire da quegli anni ‘60, a cui poco prima ci riferivamo: una società che invece di svilupparsi, lasciar emergere le proprie potenzialità, le ha, via via, compresse, represse, erose, consumate… Ed è passata attraverso poi compromessi sempre peggiori, uno dopo l’altro; forse altro non si poteva fare: perché quando ci si mette sulla via del compromesso, alla fine, non si può fare altro che scivolare di compromesso in compromesso…Allora dico: ‘Noi oggi ci troviamo in una situazione analoga a quella dell’immediato dopoguerra: rovine, rovine e ancora rovine…’ Però…, ecco, ritorno all’inizio del nostro discorso, quando lei avete chiesto come ho vissuto gli anni ’50…Erano gli anni in cui ancora, camminando per il rettifilo di Napoli, per andare dalla stazione o all’università, si vedevano rovine ovunque; e l’aria, sul piano economico, era pesante…Vestivamo ancora con i panni dell’esercito americano, magari, ritinti… Ecco, questa era la situazione. Però, allora eravamo allegri…L’allegria di chi aveva la sensazione di avere davanti a noi un futuro da costruire…le carriere da fare sul piano individuale, le ambizioni da realizzare, gli ideali per cui combattere… Per questo eravamo allegri…Oggi, i giovani che hanno l’età che noi avevamo allora, li vedo preda della tristezza, della insicurezza, della preoccupazione per il futuro…Noi non eravamo preoccupati, eppure non avevamo nulla, solo macerie attorno a noi… Non eravamo “preoccupati”, eravamo “occupati”: impegnati a riempire questo futuro… Oggi si è “pre-occupati”. Cioè, non si è impegnati a costruirlo, ma si è sotto il peso di un destino che ci appare immodificabile. Questo è il clima di carattere morale entro il quale noi ci troviamo rispetto al tempo in cui ci si trovava allora. Ecco, allora, perché vi è anche questa minore capacità da parte di tante persone; anche di quelle capaci di ragionare con autonomia. Siamo come svigoriti”.

Proviamo, e non è facile, a metterci nei panni di un ragazzo ventenne, che ci vorrebbe provare, e si vede sistematicamente espropriato di tutti i suoi diritti. Prendiamo, che so, le riforme istituzionali: ci sarà un Senato che forse sarebbe meglio abolire del tutto, perché sarà rappresentato da consiglieri regionali e mi dica quale è quella regione che si salva dalle inchieste della magistratura; se voglio indire un referendum, ormai lo posso fare solo sono una grande organizzazione, perché devo raccogliere centinaia di migliaia di firme: non è più, come l’avevano prefigurata i costituenti, l’ancora di salvezza di una minoranza che si sente minacciata nei suoi diritti; anche per un progetto di legge e di iniziativa popolare: anche questo è diventato ormai difficilissimo, e non c’è neppure la garanzia che venga calendarizzato… Insomma, sempre più tutto viene deciso e delegato a un ristretto numero di persone, una oligarchia che premia e valorizza amici, soci, complici, fedeli. Sempre meno cittadini, sempre più sudditi. Il ragazzo ventenne non ha tutte le ragioni per dire: ‘Sapete che c’è? Andatevene tutti a quel paese, non ho più alcuna fiducia in voi, vi rifiuto in blocco. Non vado neanche più a votare, visto che del mio voto ve ne fate beffa’…

Masullo: “Sì… La sua osservazione mi pare sia corretta. Ma la spiegazione di quest’osservazione mi sembra essere complicata. Cominciamo col dire che in quei famosi anni ‘60, e ancor più negli anni ‘70, si hanno le conquiste a cui lei alludeva prima: sono conquiste di popolo, conquiste che si ottengono soprattutto attraverso i referendum… Sono anche gli anni nei quali c’era un benessere economico in espansione, in cui c’era una classe operaia riusciva a costituire un blocco anche di carattere sindacale che sembrava sì la cinghia di trasmissione del partito, ma tutto sommato, rappresentava anche un potere relativamente indipendente e contrapposto al partito. Oggi dove sono gli operai? Ci sono poi delle modificazioni sociali oggettive: per esempio la distruzione dell’industria; la proletarizzazione estrema della classe operaia… Quando dico “classe operaia” intendo la classe di chi lavora effettivamente…”.

La fatica, più che il lavoro, o meglio: il posto…

Masullo: “La ‘fatica’…Proprio così, bravo! Questa, è! Questa grande parola che soprattutto nel dialetto napoletano è usata, e questo è significativo, perché è la parola che viene dall’esperienza del contadino: ‘a fatìca…’; ecco: tutto questo era una forza. Una forza che sembrava allinearsi con le strutture politiche dominanti: il partito, il sindacato, eccetera…, ma che nei momenti della decisione costituiva una forza straripante; e quindi si avevano i risultati che si sono avuti ai referendum. Noi siamo intellettuali, abituati a usare categorie che attengono, direbbe Benedetto Croce, alla vita dello spirito; ma non possiamo, se vogliamo cercare di essere concreti, non tener conto anche delle trasformazioni materiali che si svolgono nel Paese, e che i nostri governanti fingono di non vedere. Perché queste trasformazioni ci sono… E quindi, anche l’azione politica, dall’alto, dovrebbe essere un’azione politica molto più attenta a ciò che queste trasformazioni materiali comportano; viceversa ci sono coloro che in qualche modo cercano, mi passi l’espressione, di organizzare le popolazioni, capire che sono in una situazione psicologica, morale, molto diversa da quelle in cui si trovavano ad essere in anni ormai lontani da noi. E’ questo credo che sia il compito di tutti noi che cerchiamo di capire che cosa stia avvenendo, e ci sforziamo di capire che cosa si possa fare”. 

Ora indosso esplicitamente i panni del radicale. E… Marco Pannella, per esempio, si rifà, dichiaratamente, a una sorta di frase slogan che è contenuta nelle «Prediche inutili» di Luigi Einaudi: “Conoscere per deliberare”. Il quadro fosco che ho tracciato prima, lui, Pannella, lo riconduce al fatto che c’è una negazione concreta e sempre più pesante, sempre più difficile da scalfire, da abbattere, a quel diritto alla conoscenza che ci viene sistematicamente, pervicacemente negato. In sintesi, Pannella dice: “Noi radicali…”, lui per primo, ma anche altre minoranze sicuramente, non sono conosciuti, non possono essere valutati. Il cittadino non è in grado di stabilire se quella proposta o quell’altra proposta è giusta, è sbagliata, di valutarla positivamente e negativamente, perché c’è sempre più una stretta di conoscenza, sempre più si viene impediti a sapere. Qui c’è una doppia violazione del diritto: il diritto di Pannella, dei radicali, di altre minoranze di potersi fare conoscere; e il diritto del popolo di poter conoscere e poter giudicare. Questo doppio impedimento costituisce appunto una cappa che rende poi la situazione quale, spero di aver descritto. Ecco, questo diritto alla conoscenza… Condivide che sia l’elemento fondativo di questa situazione che si è creata, o invece si dà un’altra spiegazione?

Masullo: “Concordo con il riconoscimento della centralità della questione conoscenza… Ma concordare in questo, significa anche aprire gli occhi sulla malattia di fondo della società nella quale viviamo. Un po’ per lo sviluppo della conoscenza nel senso comune della parola; soprattutto per l’enorme influenza delle nuove tecnologie; la nostra è diventata una società nella quale l’individuo è sottoposto a un imbonimento di massa. E’ evidente che contro l’imbonimento di massa, si deve opporre il diritto alla conoscenza: la conoscenza è l’antidoto all’imbonimento di massa. Oggettivamente l’imbonimento di massa dispone di strumenti straordinariamente forti; viceversa, la conoscenza critica dispone soltanto della nostra fragilità umana… Dobbiamo, proprio per non scoraggiarci, prendere atto della realtà della situazione. Questo è uno degli aspetti che mi trova concorde con l’analisi radicale: la necessità costruire, edificare, produrre una serie di ‘isole’ di consapevolezza. Torniamo alle ‘koinonia’ di cui parlava Platone. Di fronte a questi enormi apparati, noi non abbiamo gli strumenti per contestarli. Lei prima accennava all’azione politica…; ma chi la fa l’azione politica? Noi siamo in minoranza, una schiacciata minoranza… Per venire più specificatamente alla situazione dell’informazione in Italia: ha due cause; da una parte l’evoluzione tecnologica; dall’altra l’appropriazione partitica degli strumenti dell’informazione. La RAI, per esempio. Ora, di fronte a questo blocco, noi rivendichiamo la libertà di informazione. Benissimo. Ma quelli ci ridono in faccia. Allora il problema è come, in qualche modo, nonostante la forza del macigno contro il quale noi ci troviamo a combattere, in quale modo avere un minimo di possibilità di incidere su questo macigno… Le vie, certo, sono varie. Quindi, per esempio, la via (anche politica) del richiamo delle forze che dovrebbero essere abbastanza oneste e riconoscere, oltre che attuare, una maggiore politica di conoscenza. Quindi il Parlamento, il Governo, quello che sia, devono in qualche modo riconoscere che occorre rinforzare gli strumenti della conoscenza collettiva, ridurre i margini della segretezza dello Stato; e anche della normale amministrazione. In effetti, credo che faccia più male all’Italia tutto ciò che noi leggiamo della corruzione che non il famoso Segreto di Stato, che pure è una pessima cosa, ma è nulla rispetto alla capacità eversiva della corruzione che noi conosciamo; corruzione che esiste in tutto il mondo da quando, chiedo scusa per il pasticcio, il mondo è mondo… Però ci sono limiti tollerabili, e limiti la cui tollerabilità è superata. Noi siamo molto al di là della tollerabilità”.

In questo gioco di rimandi, le rubo ancora una briciola di attenzione. Tra gli anni ‘50 e il tempo di oggi, tutte quelle personalità che diedero vita all’Associazione per la Libertà della Cultura, redigono un breve appello. Penso che convenga rileggerlo: “Noi riteniamo che il mondo moderno può proseguire nel suo avanzamento solamente in virtù di quel principio di libertà della coscienza, del pensiero, dell’espressione che si è faticosamente conquistato nei secoli passati. Noi riteniamo che in quanto uomini e cittadini, anche coloro che professano le arti e le scienze, siano tenuti a impegnarsi nella vita politica e civile, ma che al di fuori delle tendenze e degli ideali politici e delle preferenze per l’una e per l’altra forma di ordinamento sociale e di struttura economica, sia loro dovere custodire e difendere la propria indipendenza, e che gravissima e senza perdono sia la loro responsabilità ove rinuncino a questa difesa. E riteniamo che nell’attuale periodo storico, che ha visto, e vede, tanti sistematici attentati alla vita dell’arte e del pensiero da parte dei potenti del giorno, i liberali artisti e scienziati siano tenuti a prestarsi reciproca solidarietà e a confrontarsi nel pericolo.” Un documento redatto nel ’51…Lo so perché in calce c’è la data. Ma se qualcuno mi avesse detto che quel documento è del 2015, ci crederei, quelle parole, quell’analisi vale per l’oggi, è attualissimo…

Masullo: “Attualissimo, sì. Quel documento è l’espressione della rivendicazione della libertà di pensiero, della libertà di coscienza, della onestà. Usiamo anche questa parola. Il pensiero deve essere ‘onesto’; voglio dire: il pensiero deve essere quello che penso quando nessuno mi sente: identico a quello che penso quando parlo in pubblico. Lo dico perché spesso l’intellettuale (adoperiamo questa parola che a me non piace, ma insomma, così ci intendiamo) pensa in un certo modo; poi però parla in modo diverso, per compiacere il potente, il direttore del giornale, il suo pubblico…”.

A questo punto Pannella evocherebbe il tradimento dei chierici…

Masullo: “Il tradimento dei chierici…Perfetto. Ho fatto la tesi di laurea su Julien Benda. Ora, il problema è che il documento del ’51, sacrosanto nella sua ispirazione, è il documento di persone per le quali la minaccia alla libertà della cultura veniva ancora dagli Stati, gli Stati totalitari. Oggi questa minaccia viene sempre dagli Stati, ma viene anche, e soprattutto, dalla organizzazione delle amministrazioni, dei grandi gruppi di potere, le organizzazioni dell’informazione pubblica…”.

Il nostro nemico, ora è la democrazia reale…

Masullo: “La democrazia reale, certo! Il nostro nemico è idealmente lo stesso del ’51, ma in realtà è molto diverso. Ed è molto più pericoloso e difficile da combattere di quello del ’51… Allora era un nemico politico e basta. Oggi è un nemico sociale, economico, è un nemico politico: un conglomerato di inimicizie contro cui la libertà della cultura deve difendersi”.

Resta l’attualità del prestarsi reciproca solidarietà e confrontarsi nel pericolo…

Masullo: “Questo mi riporta ancora una volta alle comunanze platoniche di cui parlavo all’inizio. In fondo, noi siamo degli isolati. Dobbiamo cercare di unirci, fra di noi… Dobbiamo cercare innanzitutto di stabilire delle reti di comunicazione… Una delle cose che sono alla base della nostra esigenza fondamentale è quella di avere informazioni esatte, critiche. E ognuno di noi da solo non le può avere”.

Leonardo Sciascia diceva: ‘Bisogna contarci, e scopriremo di essere sì minoranza, ma molti di più di quanto loro stessi e noi crediamo’.

Masullo: “È così! Il paradosso è che siamo pochi, ma siamo pochi non perché siamo di numero pochi, ma perché siamo tanto separati l’uno dall’altro che non sappiamo che accanto a noi esistono altri che la pensano come noi”.

Contarsi vuol dire anche ‘contare’, e noi contiamo su di lei, la disturberemo anche altre volte…

Masullo: “Vi ringrazio per questa fiducia; e sicuramente, in coerenza con i miei principi, darò il mio contributo per quanto mi sarà possibile, a questo tipo di lavoro”.

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Valter Vecellio intervista il professor Aldo Masullo, professore emerito di Filosofia morale dell’Università Federico II di Napoli.

L’intervista è stata registrata giovedì 19 marzo 2015 alle ore 15:00.

Nel corso dell’intervista sono stati discussi i seguenti temi: Associazioni, Croce, Cultura, Destra, Docenti, Fascismo, Filosofia, Intellettuali, Liberalismo, Napoli, Napolitano, Pci, Politica, Rosi, Silone, Storia, Università.

Fonte: Radio Radicale

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Professor Aldo Masullo, questa volta cominciamo dal 1951: quando in Europa, e anche in Italia, si costituisce “l’Associazione per la Libertà della Cultura”; tra i suoi animatori e aderenti il meglio della cultura dell’epoca: Benedetto Croce e Ignazio Silone, per fare due nomi; ma la lista è lunghissima… ne faccio altri quattro: Guido Calogero, Nicola Chiaromonte, Mario Pannunzio, Ernesto Rossi… Persone che hanno dato tanto a questo Paese e non solo all’Italia; e tuttavia è come se il loro ricordo, quello che hanno fatto, si scolori; si fa sempre più fatica, per esempio, a trovare i loro libri. Per fortuna ci sono ancora piccole case editrici che pubblicano le loro opere; ma non è facile trovarle…Credo sia importante mantenere vivo il ricordo di quello che erano e hanno fatto. Lei professore, che ricordo ha di quegli anni? Può darci un po’ quell’atmosfera, il “sapore” di quei giorni… 

Aldo Masullo: “Per quello che io riesco a ricordare (dico “riesco” perché ricordare non è un’operazione automatica: è una faticosa ricostruzione; può richiedere a volte pochi minuti, ma è sempre una ricostruzione che ogni volta facciamo in noi stessi: la ricostruzione di un passato che, si voglia o no, è lontano). Dov’ero in quegli anni, che ricordo ne ho… Nel 1951 ero sposato da un anno, ed ero assistente ordinario di Storia della Filosofia all’Università di Napoli. Il mio Maestro, lo ricordo con grande affetto, era Cleto Carbonara: docente di Storia della Filosofia, di origini lucane, ma di fatto napoletano. Aveva cominciato come professore di liceo, poi, vinto il concorso di professore universitario, era stato a Catania e nel ’50 era tornato a Napoli. Carbonara (lo ricordo in modo particolare in relazione alla domanda che mi avete fatto), era un intellettuale di formazione socialista; nell’immediato dopoguerra, nella grande, diciamo, infatuazione per questa o quella bandiera, si era iscritto al PCI; è stato anche consigliere comunale di Napoli. Nella sua attività politica, portava tutta la “semplicità” e l’ingenuità di un professore di filosofia. Ricordo che si batté moltissimo per le varie cause pacifistiche che si animavano in quegli anni; e aveva un forte ascendente sui suoi allievi. Io, in verità, per mio temperamento, sono stato sempre un poco intellettualmente schivo; mi spiego: sono sempre stato piuttosto attento a non aderire emotivamente a parole d’ordine, richiami, che potevano anche essere giusti; ma che, per il fatto stesso di essere parole d’ordine e richiami, suscitavano in me una certa resistenza…”.

Allora, era già iscritto al PCI? 

Masullo: “Partecipavo, dal punto di vista morale, ad alcune delle campagne pacifiste, antimilitariste; soprattutto, ero assorbito dai miei studi, se vuole dall’ansia di fare carriera, del resto ero ancora abbastanza giovane, e ci davo dentro. Aggiungo che Napoli, in quegli anni, era un vivaio di iniziative politico-culturali o cultural-politiche; tutte cose importanti, ma politicamente “segnate”: eravamo circoli nati sotto l’egida marxista; e contrapposti c’erano circoli di destra, conservatori… C’era un dibattito vivacissimo; e si andava via via delineando uno scontro destinato a scoppiare: da una parte il lato reazionario, conservatore della società napoletana; e quello che, viceversa, era quello innovatore, di “rottura”. Naturalmente, queste due connotazioni contrapposte non è che si potessero definire in maniera precisa, perché c’era un sovrapporsi di altri elementi che poi frammentavano queste due posizioni estreme. Ho nitido il ricordo di questo confronto e dibattito, era molto forte tra i giovani. Il dibattito era politico-culturale, però in alcuni momenti, in alcuni luoghi, prevaleva il lato politico; in altri luoghi quello culturale.”

C’era Benedetto Croce, ma c’erano anche un giovane Giorgio Napolitano, il cosiddetto gruppo del Liceo Umberto i cui componenti prenderanno varie strade, ma nei loro campi diverranno dei protagonisti: Francesco Rosi, Giuseppe Patroni Griffi, Antonio Ghirelli, Raffaele La Capria, Luigi Compagnone… Insomma, Napoli in quegli anni era un bel centro di tensione morale e culturale.

Masullo: “Avete citato Napolitano…Era uno dei giovani che costituivano, all’interno del PCI, un elemento di grande forza culturale e intellettuale. Ma non c’era solo lui nel PCI ad avere una notevole levatura culturale. E, d’altra parte, nell’università c’era un forte arroccamento da parte di un gruppo di anziani professori: un arroccamento di destra, di grande preoccupazione nei riguardi di una possibile vittoria del PCI; per fare un esempio, il mio Maestro Carbonara, all’interno della facoltà, in qualche modo fu sempre osteggiato dalla maggioranza dei suoi colleghi, di destra. Si può dire che nelle piazze e nei circoli era più visibile lo scontro tra le diverse posizioni diverse; al contrario, nelle grandi istituzioni, come nell’università, lo scontro era meno percepibile dal grande pubblico; ma nella sostanza forse era molto più forte. Per quel che mi riguarda, come ho detto, in quegli anni ero più impegnato nella carriera di studioso, la politica veniva dopo. Quando era necessario, o se ne presentava l’occasione, anch’io manifestavo ed esprimevo le mie posizioni: un progressismo razionale, critico; ma in fondo un contributo attivo alla vita politica, in quel periodo, non lo davo. Ero piuttosto interessato a rafforzare un certo tessuto discorsivo nel rapporto con gli studenti o con i giovani colleghi; quello che mi attraeva non era tanto la partecipazione alla vita di un partito politico, o a quella di un circolo politico-culturale; quello che mi attraeva e mi interessava era tessere un rapporto di ricerca e costruzione, anche politica, con i singoli individui, nella formazione di piccoli gruppi. Forse perché ero anche interessato, come del resto sono sempre rimasto, da quel passaggio del simposio platonico, dove Platone dice che le piccole comunanze, le piccole comunità, le “koinonia”, sono quelle che producono grandi virtù e grandi pensieri; e per questo sono quelle più mal viste dai tiranni. Mi rendevo conto, non so se a ragione o a torto che, nell’urto fra grandi forze organizzate, quello che valeva la pena, se si voleva costruire qualche cosa di veramente significativo per il futuro, non era l’aderire a questa o a quella forza; piuttosto costruire nuclei di pensiero… Ecco, qui è il caso di ricordare la libertà della cultura. Che cosa distingue l’ideologia dall’idea? L’ideologia è un’idea “commercializzata”, un’idea che diventa slogan, che ha perso la sua freschezza critica; un’idea che spesso diventa anche un paravento. Al contrario, se si vuole evitare che la cultura si sclerotizzi, diventi uno strumento della politica, occorre alimentare questi nuclei di pensiero libero. Era quello che mi interessava in quel periodo. Poi sono venuti tempi più tempestosi: gli scontri , anche fisici, nel decennio successivo: all’Università di Napoli cominciano le irruzioni dei fascisti, ci sono scontri con gli studenti e con i giovani professori… La situazione muta: dagli scontri di grandi blocchi ideologici che comunque lasciavano spazi per la costruzione di discorsi “minimi” (e nella loro “minimalità”, più fecondi), si passa a scontri di carattere più massicci, molto più invadenti… E si arriva agli Sessanta, agli anni Settanta: quando viene eletto presidente della Repubblica Giovanni Leone, napoletano, persona degnissima. Alla sua elezione però concorrono anche i fascisti, e la cosa suscita una serie di allarmi. Quindi noi nel giro di una ventina d’anni, dal ’50 da cui siamo partiti, agli anni ’70, ci troviamo al centro di un processo di profondo cambiamento; non ce ne accorgiamo subito, ma si tratta di un profondo cambiamento della situazione sociopolitica italiana. Non va dimenticato che tra il ’50 il ’70, c’è stato il ’60. Quel particolare decennio è un momento chiave della storia politica italiana: è il decennio nel quale l’Italia approda a una cultura industriale completamente nuova: Olivetti, per esempio”.

Stiamo parlando di Adriano Olivetti… 

Masullo: “Sì, proprio lui. Era il decennio nel quale l’Olivetti era giunta a costruire, per la prima volta, un computer portatile. E’ in quel decennio che avviene una profonda rivoluzione che coinvolge e sconvolge gli apparati culturali, scientifici e tecnologici italiani; e la Olivetti viene praticamente soffocata da scelte politiche di carattere opposto, praticamente viene costretta a vendere i propri brevetti agli americani…”

Oltre ai computer, c’è la famosa utopia olivettiana: Ivrea, l’idea di fabbrica e abitazioni costruite con certi criteri per i dipendenti; la rivista di “Comunità”; lo sfortunato tentativo anche elettorale: credo di ricordare che venne eletto un solo parlamentare nella lista promossa da Olivetti, il sociologo Franco Ferrarotti…Insomma, c’era tutta una filosofia dietro quei computer, se così posso dire…

Masullo: “Sì: erano gli anni in cui, mentre sembrava che stesse esplodendo questa nuova capacità italiana di fare industria moderna, si realizzava in parallelo una contromossa politica. E’ il decennio in cui segretario della DC era Amintore Fanfani; e in quegli anni cominciarono a porsi il problema di come finanziare il partito. La risposta che si trovò era molto semplice: le industrie pubbliche, le industrie di Stato. Così l’industria di Stato diventa industria del governo, e naturalmente cessa di essere industria dello Stato. Di conseguenza nasce la casta dei boiardi: è chiaro che un partito che vuole utilizzare l’apparato industriale deve mettere a capo di quell’apparato persone di propria fiducia; magari anche di valore, ma di propria fiducia”.

Accadeva un po’ dappertutto, dalla RAI, all’IRI…

Masullo: “Un’invasione, una vera e propria invasione; un’occupazione massiccia dei centri di produzione, materiale e intellettuale, ad opera di un partito che via via, per conservare il potere deve consociare anche altri partiti politici…”

Una vera e propria spartizione con una sorta di patto: le case editrici, la cultura spettavano, al PCI, alla DC apparati statali e parastatali…  

Masullo: “Possiamo definirlo un periodo di scontro frenato, per una serie di ragioni che tutti conosciamo, di carattere internazionale. Però uno scontro c’era. Poi alla fine degli anni ‘70 questo scontro diventa complicità, sia pure mascherata in qualche modo…” 

Se si vanno a frugare gli atti e i documenti parlamentari, già negli anni Cinquanta, e dopo, se ne ricava che il 95 per cento delle leggi vengono approvate in Commissione e poi, magari, portate nell’Aula, ma maggioranza e opposizione sono in perfetta sintonia. C’era già allora il germe di una consociazione. Soci, più che avversari politici… Si potrà obiettare che sia inevitabile che alcune leggi siano il frutto di compromessi; però non di nascosto, alla luce del sole, di modo che tutti possano valutare, conoscere, giudicare…

Masullo: “Sì certamente… Ma una società come quella italiana è, se così si può dire “ipotecata” da due grandi forze politiche con forte strutturazione ideologica; una strutturazione che li rende capaci di essere non solo potere materiale, ma anche potere culturale; dunque è inevitabile che o si giunge a uno scontro decisivo, e in Italia questo scontro era impossibile per le ragioni che tutti conosciamo; o alla fine, non si può fare altro che arrivare a un “appeasement”. Stante la situazione in cui ci si trovava, e ci si trova ancora, era inevitabile. Ecco: credo che si possa concludere con questa riflessione: di fatto, in Italia, le posizioni minoritarie lo sono non in quanto gruppi minori, ma in quanto individui. Il caso della stessa Associazione per la Libertà della Cultura è il caso di personalità che si associano, senza aver dietro di loro partiti o movimenti. Semmai, piccole frazioni”.

Ci ritorneremo. Prima però vorrei conoscere la sua opinione su un fatto che spero di riuscire a descrivere compiutamente. Gli anni ‘70, che spesso sono cristallizzati in quella famosa foto che rappresenta un autonomo, il volto coperto da un passamontagna, che punta una rivoltella, una P-38, e fa fuoco. Se gli anni ’70 li si analizza con attenzione, ci accorgiamo però che non sono stati solo i cosiddetti ‘anni di piombo’, ma anche gli anni delle grandi riforme: Statuto dei lavoratori; legge sul divorzio; depenalizzazione dell’aborto; legge sull’affermazione di coscienza e niente più carcere per chi non vuole fare il servizio militare; voto ai diciottenni; il nuovo diritto di famiglia; abolizione del regime manicomiale… Probabilmente dimentico molte altre grandi conquiste. Tutte queste grandi cose oggi sembrano naturali come respirare, bere, mangiare: è normale che una coppia che non si trova più d’accordo si possa separare e si possano formare nuovi nuclei legali. All’epoca quelle cose oggi normali sono costate letteralmente lacrime, sudore e sangue. Bisogna anche ricordare che c’era l’opposizione ufficiale degli “apparati”: sia il grande partito al Governo, la DC; e spesso, quasi sempre, anche il grande partito di opposizione, il PCI. In quegli anni quell’enorme terreno di lotta politica lo si lasciò arare, per anni e anni, ai radicali e ad altre minoranze. Come si spiega questa incapacità del PCI di allora? Mostrava di non avere neppure fiducia nel suo stesso elettorato; i vertici pensavano che il loro elettorato non avrebbe capito l’importanza, il valore di quelle conquiste, di quelle battaglie; si temeva che quell’elettorato avrebbe potuto tradire il partito stesso, votare in senso opposto alle indicazioni del partito. Poi si è visto che è accaduto esattamente l’opposto, il contrario: sono stati gli elettorati democristiano e missino che non ha seguito le direttive dei vertici del loro partiti. Come si spiega questa cecità del PCI, e anche di buona parte di quella che allora veniva chiamata Nuova Sinistra, e di parte del mondo laico? Per farla breve: complicità o cecità, incapacità di capire e interpretare i fenomeni che erano in atto?

Masullo: “Direi che l’ideologia acceca. In questo senso: quando una forza politica è schiacciata dal peso di una ideologia, per quanto questa forza politica sia ricca di presenze progressiste, inevitabilmente sul piano ufficiale si afferma resistenza di carattere ideologico. Gli iscritti al PCI o comunque, gli uomini che per ragioni varie simpatizzavano per il PCI, erano la parte più insofferente della tradizione della società italiana, la parte più aperta alle novità. Una parte che appena si presentava l’occasione, non seguiva le direttive che venivano dall’alto, che erano accecate dall’ideologia. Voglio dire che la forza del giudizio popolare, la forza del giudizio di chi vive quotidianamente i propri dolori, le proprie sofferenze, è enormemente maggiore della forza di resistenza delle ufficialità ideologiche. Quindi noi abbiamo un gruppo dirigente che non può fare a meno di seguire l’indicazione della propria visione ideologica; dall’altra parte c’è un elettorato che, pur collocato nell’ambito della sinistra, ha una sua capacità di giudizio. Potrei dire che esistono due sinistre, una sovrapposta sull’altra: c’è una sinistra ufficiale, ideologica, organizzata secondo strutture di comando; e c’è una sinistra popolare, autentica, che obbedisce al proprio giudizio spregiudicato, ai propri bisogni, alla propria valutazione della vita così come si presenta quotidianamente”.

Non ha l’impressione di rivedere, oggi un film già visto. E’ vero che la storia non si ripete se non per caricature; però, anche oggi non ha l’impressione che nel Paese ci sia una richiesta di nuove libertà; e chi dovrebbe incarnare, essere il portavoce di queste nuove libertà, in realtà, se ne disinteressa, quando non le ostacola e le boicotta. A me sembra di vedere in questo tempo che viviamo, una sorta di ripetizione, ripeto, caricaturale, di un già vissuto. Parlo di caricatura perché cinquant’anni fa almeno c’erano persone come Palmiro Togliatti, Giorgio Amendola, Pietro Ingrao…Ora, insomma gli “attori” sono quelli che sono…tuttavia c’è la stessa indifferenza da parte di chi governa; e c’è la stessa sete di libertà oggi come allora, da parte di chi è governato, o per meglio dire sgovernato…

Masullo: “Con alcune differenze di carattere oggettivo: non possiamo non ricordare che gli anni ‘60 e ’70 sono gli anni in cui vi è una diffusione rapida di un benessere medio che rendeva gli individui molto più liberi, anche nella rivendicazione dei propri diritti. Oggi c’è la sofferenza, ma manca quella forza rivendicativa che, viceversa, potevamo riscontrare nelle masse nelle varie forme di aggregazione degli anni ‘60 e ‘70. Allora le classi più modeste avevano una forza molto maggiore di quanto non abbiano oggi rispetto ai propri governanti”.

Non so se la memoria mi tradisce… Lei ha partecipato una volta a una trasmissione, ‘Ballarò’…

Masullo: “Sì, ‘Ballarò’…”. 

Ecco, il ‘Ballarò’ all’epoca condotto da Giovanni Floris…In quell’occasione, cerco di riassumerne il senso, lei disse che viviamo un periodo per tanti versi drammatico, ma non più drammatico di altri, come per esempio gli anni dell’immediato dopo guerra; e questo è nei fatti, la situazione allora era infinitamente più grave e pesante. Poi però lei ha detto una cosa che mi ha molto colpito: ‘Eravamo più seri’…

Masullo: “Mi prende un momento alla sprovvista, adesso non ricordo se ho pronunciato proprio la parola ‘serio’…”. 

Credo di sì, me ne assumo la responsabilità: lei disse proprio: ‘Eravamo più seri’…

Masullo: “Bene, se l’ho detto, ho fatto bene a dirlo…Comunque, mi piace tornare su questo tema: è lo stesso tema che tratto ogni volta che mi trovo a parlare in luoghi dove ci sono giovani, per esempio le scuole… A loro dico che tra l’epoca nella quale essi vivono, e l’epoca nella quale sono vissuto io, più o meno quand’ero giovane come loro, ci sono analogie: nel senso che, allora, come oggi, noi siamo colpiti da grosse difficoltà di carattere materiale, economico: venivamo da una guerra, per di più perduta, anche se alla fine tutte le guerre sono sempre perdute…Comunque averle perdute è un’aggravante sul piano, degli effetti concreti…Oggi, veniamo da una crisi che non è tanto quella che tutti vedono e lamentano; secondo me stiamo vivendo una sorta di punto critico, di arrivo di una società autofaga: una società che divora se stessa; e ha cominciato a farlo a partire da quegli anni ‘60, a cui poco prima ci riferivamo: una società che invece di svilupparsi, lasciar emergere le proprie potenzialità, le ha, via via, compresse, represse, erose, consumate… Ed è passata attraverso poi compromessi sempre peggiori, uno dopo l’altro; forse altro non si poteva fare: perché quando ci si mette sulla via del compromesso, alla fine, non si può fare altro che scivolare di compromesso in compromesso…Allora dico: ‘Noi oggi ci troviamo in una situazione analoga a quella dell’immediato dopoguerra: rovine, rovine e ancora rovine…’ Però…, ecco, ritorno all’inizio del nostro discorso, quando lei avete chiesto come ho vissuto gli anni ’50…Erano gli anni in cui ancora, camminando per il rettifilo di Napoli, per andare dalla stazione o all’università, si vedevano rovine ovunque; e l’aria, sul piano economico, era pesante…Vestivamo ancora con i panni dell’esercito americano, magari, ritinti… Ecco, questa era la situazione. Però, allora eravamo allegri…L’allegria di chi aveva la sensazione di avere davanti a noi un futuro da costruire…le carriere da fare sul piano individuale, le ambizioni da realizzare, gli ideali per cui combattere… Per questo eravamo allegri…Oggi, i giovani che hanno l’età che noi avevamo allora, li vedo preda della tristezza, della insicurezza, della preoccupazione per il futuro…Noi non eravamo preoccupati, eppure non avevamo nulla, solo macerie attorno a noi… Non eravamo “preoccupati”, eravamo “occupati”: impegnati a riempire questo futuro… Oggi si è “pre-occupati”. Cioè, non si è impegnati a costruirlo, ma si è sotto il peso di un destino che ci appare immodificabile. Questo è il clima di carattere morale entro il quale noi ci troviamo rispetto al tempo in cui ci si trovava allora. Ecco, allora, perché vi è anche questa minore capacità da parte di tante persone; anche di quelle capaci di ragionare con autonomia. Siamo come svigoriti”.

Proviamo, e non è facile, a metterci nei panni di un ragazzo ventenne, che ci vorrebbe provare, e si vede sistematicamente espropriato di tutti i suoi diritti. Prendiamo, che so, le riforme istituzionali: ci sarà un Senato che forse sarebbe meglio abolire del tutto, perché sarà rappresentato da consiglieri regionali e mi dica quale è quella regione che si salva dalle inchieste della magistratura; se voglio indire un referendum, ormai lo posso fare solo sono una grande organizzazione, perché devo raccogliere centinaia di migliaia di firme: non è più, come l’avevano prefigurata i costituenti, l’ancora di salvezza di una minoranza che si sente minacciata nei suoi diritti; anche per un progetto di legge e di iniziativa popolare: anche questo è diventato ormai difficilissimo, e non c’è neppure la garanzia che venga calendarizzato… Insomma, sempre più tutto viene deciso e delegato a un ristretto numero di persone, una oligarchia che premia e valorizza amici, soci, complici, fedeli. Sempre meno cittadini, sempre più sudditi. Il ragazzo ventenne non ha tutte le ragioni per dire: ‘Sapete che c’è? Andatevene tutti a quel paese, non ho più alcuna fiducia in voi, vi rifiuto in blocco. Non vado neanche più a votare, visto che del mio voto ve ne fate beffa’…

Masullo: “Sì… La sua osservazione mi pare sia corretta. Ma la spiegazione di quest’osservazione mi sembra essere complicata. Cominciamo col dire che in quei famosi anni ‘60, e ancor più negli anni ‘70, si hanno le conquiste a cui lei alludeva prima: sono conquiste di popolo, conquiste che si ottengono soprattutto attraverso i referendum… Sono anche gli anni nei quali c’era un benessere economico in espansione, in cui c’era una classe operaia riusciva a costituire un blocco anche di carattere sindacale che sembrava sì la cinghia di trasmissione del partito, ma tutto sommato, rappresentava anche un potere relativamente indipendente e contrapposto al partito. Oggi dove sono gli operai? Ci sono poi delle modificazioni sociali oggettive: per esempio la distruzione dell’industria; la proletarizzazione estrema della classe operaia… Quando dico “classe operaia” intendo la classe di chi lavora effettivamente…”.

La fatica, più che il lavoro, o meglio: il posto…

Masullo: “La ‘fatica’…Proprio così, bravo! Questa, è! Questa grande parola che soprattutto nel dialetto napoletano è usata, e questo è significativo, perché è la parola che viene dall’esperienza del contadino: ‘a fatìca…’; ecco: tutto questo era una forza. Una forza che sembrava allinearsi con le strutture politiche dominanti: il partito, il sindacato, eccetera…, ma che nei momenti della decisione costituiva una forza straripante; e quindi si avevano i risultati che si sono avuti ai referendum. Noi siamo intellettuali, abituati a usare categorie che attengono, direbbe Benedetto Croce, alla vita dello spirito; ma non possiamo, se vogliamo cercare di essere concreti, non tener conto anche delle trasformazioni materiali che si svolgono nel Paese, e che i nostri governanti fingono di non vedere. Perché queste trasformazioni ci sono… E quindi, anche l’azione politica, dall’alto, dovrebbe essere un’azione politica molto più attenta a ciò che queste trasformazioni materiali comportano; viceversa ci sono coloro che in qualche modo cercano, mi passi l’espressione, di organizzare le popolazioni, capire che sono in una situazione psicologica, morale, molto diversa da quelle in cui si trovavano ad essere in anni ormai lontani da noi. E’ questo credo che sia il compito di tutti noi che cerchiamo di capire che cosa stia avvenendo, e ci sforziamo di capire che cosa si possa fare”. 

Ora indosso esplicitamente i panni del radicale. E… Marco Pannella, per esempio, si rifà, dichiaratamente, a una sorta di frase slogan che è contenuta nelle «Prediche inutili» di Luigi Einaudi: “Conoscere per deliberare”. Il quadro fosco che ho tracciato prima, lui, Pannella, lo riconduce al fatto che c’è una negazione concreta e sempre più pesante, sempre più difficile da scalfire, da abbattere, a quel diritto alla conoscenza che ci viene sistematicamente, pervicacemente negato. In sintesi, Pannella dice: “Noi radicali…”, lui per primo, ma anche altre minoranze sicuramente, non sono conosciuti, non possono essere valutati. Il cittadino non è in grado di stabilire se quella proposta o quell’altra proposta è giusta, è sbagliata, di valutarla positivamente e negativamente, perché c’è sempre più una stretta di conoscenza, sempre più si viene impediti a sapere. Qui c’è una doppia violazione del diritto: il diritto di Pannella, dei radicali, di altre minoranze di potersi fare conoscere; e il diritto del popolo di poter conoscere e poter giudicare. Questo doppio impedimento costituisce appunto una cappa che rende poi la situazione quale, spero di aver descritto. Ecco, questo diritto alla conoscenza… Condivide che sia l’elemento fondativo di questa situazione che si è creata, o invece si dà un’altra spiegazione?

Masullo: “Concordo con il riconoscimento della centralità della questione conoscenza… Ma concordare in questo, significa anche aprire gli occhi sulla malattia di fondo della società nella quale viviamo. Un po’ per lo sviluppo della conoscenza nel senso comune della parola; soprattutto per l’enorme influenza delle nuove tecnologie; la nostra è diventata una società nella quale l’individuo è sottoposto a un imbonimento di massa. E’ evidente che contro l’imbonimento di massa, si deve opporre il diritto alla conoscenza: la conoscenza è l’antidoto all’imbonimento di massa. Oggettivamente l’imbonimento di massa dispone di strumenti straordinariamente forti; viceversa, la conoscenza critica dispone soltanto della nostra fragilità umana… Dobbiamo, proprio per non scoraggiarci, prendere atto della realtà della situazione. Questo è uno degli aspetti che mi trova concorde con l’analisi radicale: la necessità costruire, edificare, produrre una serie di ‘isole’ di consapevolezza. Torniamo alle ‘koinonia’ di cui parlava Platone. Di fronte a questi enormi apparati, noi non abbiamo gli strumenti per contestarli. Lei prima accennava all’azione politica…; ma chi la fa l’azione politica? Noi siamo in minoranza, una schiacciata minoranza… Per venire più specificatamente alla situazione dell’informazione in Italia: ha due cause; da una parte l’evoluzione tecnologica; dall’altra l’appropriazione partitica degli strumenti dell’informazione. La RAI, per esempio. Ora, di fronte a questo blocco, noi rivendichiamo la libertà di informazione. Benissimo. Ma quelli ci ridono in faccia. Allora il problema è come, in qualche modo, nonostante la forza del macigno contro il quale noi ci troviamo a combattere, in quale modo avere un minimo di possibilità di incidere su questo macigno… Le vie, certo, sono varie. Quindi, per esempio, la via (anche politica) del richiamo delle forze che dovrebbero essere abbastanza oneste e riconoscere, oltre che attuare, una maggiore politica di conoscenza. Quindi il Parlamento, il Governo, quello che sia, devono in qualche modo riconoscere che occorre rinforzare gli strumenti della conoscenza collettiva, ridurre i margini della segretezza dello Stato; e anche della normale amministrazione. In effetti, credo che faccia più male all’Italia tutto ciò che noi leggiamo della corruzione che non il famoso Segreto di Stato, che pure è una pessima cosa, ma è nulla rispetto alla capacità eversiva della corruzione che noi conosciamo; corruzione che esiste in tutto il mondo da quando, chiedo scusa per il pasticcio, il mondo è mondo… Però ci sono limiti tollerabili, e limiti la cui tollerabilità è superata. Noi siamo molto al di là della tollerabilità”.

In questo gioco di rimandi, le rubo ancora una briciola di attenzione. Tra gli anni ‘50 e il tempo di oggi, tutte quelle personalità che diedero vita all’Associazione per la Libertà della Cultura, redigono un breve appello. Penso che convenga rileggerlo: “Noi riteniamo che il mondo moderno può proseguire nel suo avanzamento solamente in virtù di quel principio di libertà della coscienza, del pensiero, dell’espressione che si è faticosamente conquistato nei secoli passati. Noi riteniamo che in quanto uomini e cittadini, anche coloro che professano le arti e le scienze, siano tenuti a impegnarsi nella vita politica e civile, ma che al di fuori delle tendenze e degli ideali politici e delle preferenze per l’una e per l’altra forma di ordinamento sociale e di struttura economica, sia loro dovere custodire e difendere la propria indipendenza, e che gravissima e senza perdono sia la loro responsabilità ove rinuncino a questa difesa. E riteniamo che nell’attuale periodo storico, che ha visto, e vede, tanti sistematici attentati alla vita dell’arte e del pensiero da parte dei potenti del giorno, i liberali artisti e scienziati siano tenuti a prestarsi reciproca solidarietà e a confrontarsi nel pericolo.” Un documento redatto nel ’51…Lo so perché in calce c’è la data. Ma se qualcuno mi avesse detto che quel documento è del 2015, ci crederei, quelle parole, quell’analisi vale per l’oggi, è attualissimo…

Masullo: “Attualissimo, sì. Quel documento è l’espressione della rivendicazione della libertà di pensiero, della libertà di coscienza, della onestà. Usiamo anche questa parola. Il pensiero deve essere ‘onesto’; voglio dire: il pensiero deve essere quello che penso quando nessuno mi sente: identico a quello che penso quando parlo in pubblico. Lo dico perché spesso l’intellettuale (adoperiamo questa parola che a me non piace, ma insomma, così ci intendiamo) pensa in un certo modo; poi però parla in modo diverso, per compiacere il potente, il direttore del giornale, il suo pubblico…”.

A questo punto Pannella evocherebbe il tradimento dei chierici…

Masullo: “Il tradimento dei chierici…Perfetto. Ho fatto la tesi di laurea su Julien Benda. Ora, il problema è che il documento del ’51, sacrosanto nella sua ispirazione, è il documento di persone per le quali la minaccia alla libertà della cultura veniva ancora dagli Stati, gli Stati totalitari. Oggi questa minaccia viene sempre dagli Stati, ma viene anche, e soprattutto, dalla organizzazione delle amministrazioni, dei grandi gruppi di potere, le organizzazioni dell’informazione pubblica…”.

Il nostro nemico, ora è la democrazia reale…

Masullo: “La democrazia reale, certo! Il nostro nemico è idealmente lo stesso del ’51, ma in realtà è molto diverso. Ed è molto più pericoloso e difficile da combattere di quello del ’51… Allora era un nemico politico e basta. Oggi è un nemico sociale, economico, è un nemico politico: un conglomerato di inimicizie contro cui la libertà della cultura deve difendersi”.

Resta l’attualità del prestarsi reciproca solidarietà e confrontarsi nel pericolo…

Masullo: “Questo mi riporta ancora una volta alle comunanze platoniche di cui parlavo all’inizio. In fondo, noi siamo degli isolati. Dobbiamo cercare di unirci, fra di noi… Dobbiamo cercare innanzitutto di stabilire delle reti di comunicazione… Una delle cose che sono alla base della nostra esigenza fondamentale è quella di avere informazioni esatte, critiche. E ognuno di noi da solo non le può avere”.

Leonardo Sciascia diceva: ‘Bisogna contarci, e scopriremo di essere sì minoranza, ma molti di più di quanto loro stessi e noi crediamo’.

Masullo: “È così! Il paradosso è che siamo pochi, ma siamo pochi non perché siamo di numero pochi, ma perché siamo tanto separati l’uno dall’altro che non sappiamo che accanto a noi esistono altri che la pensano come noi”.

Contarsi vuol dire anche ‘contare’, e noi contiamo su di lei, la disturberemo anche altre volte…

Masullo: “Vi ringrazio per questa fiducia; e sicuramente, in coerenza con i miei principi, darò il mio contributo per quanto mi sarà possibile, a questo tipo di lavoro”.

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