In Conversando con

Conversando con Giuseppe Loteta

Intervista di Valter Vecellio
Roma, 15 maggio 2016

Valter Vecellio intervista Giuseppe Loteta, scrittore e giornalista.

L’intervista è stata registrata domenica 15 maggio 2016 alle ore 11:00.

Nel corso dell’intervista sono stati trattati i seguenti temiAnno Santo, Antifascismo, Astrolabio, Azione Cattolica, Berlinguer, Braibanti, Carandini, Cattolicesimo, Cultura, Dc, De Lorenzo, Democrazia, Economia, Fascismo, Franco, Fuci, Giornalismo, Giugni, Gobetti, Golpe, Gramsci, Guerra, Il Messaggero, Il Mondo, La Malfa, Laicita’, Lenin, Liberalismo, Marano, Messina, Omosessualita’, Pannella, Pannunzio, Parri, Partiti, Partito Radicale, Pci, Piccardi, Pli, Politica, Pri, Psdi, Roccella, Rossi, Rossi Doria, Salvemini, Sciascia, Sicilia, Socialismo, Societa’, Sogno, Spagna, Stalin, Stanzani, Storia, Unione Goliardica Italiana, Universita’, Urss, Violante.

Questa intervista è disponibile anche nella sola versione audio.

Fonte: Radio Radicale

Domanda: Giuseppe Loteta è un giornalista, uno scrittore, ma a noi interessa qui, soprattutto come protagonista e testimone di un periodo della nostra recente storia irripetibile e di grande importanza. Loteta infatti ha vissuto in prima persona gli anni dell’Unione Goliardica Italiana; il suo impegno radicale e socialista data da sempre. Dopo gli anni dell’università per anni ha svolto attività giornalistica: la stagione esaltante de “L’Astrolabio” diretto da Ferruccio Parri e da Ernesto Rossi, personalità che non hanno bisogno di presentazione.
Poi un’esperienza in un settimanale che forse andrebbe ricordato più di quanto non sia: “Alt”. Per anni poi al “Messaggero” di Roma. Mi fermo qui, che il resto verrà nel corso della conversazione. Vorrei però cominciare chiedendoti come capita che un ragazzo che vive a Messina, a un certo punto sulla strada incontra l’UGI, è lì che conosci Marco Pannella, Franco Roccella, Lino Iannuzzi, Sergio Stanzani; e poi il Partito Radicale di Mario Pannunzio, gli “Amici del Mondo”, esperienze da cui viene “segnato per tutta la vita”…

Giuseppe Loteta: “La mia generazione, praticamente, è quella che vive la tragedia della guerra e gli anni successivi. Abbiamo fatto in tempo ad essere Balilla, abbiamo conosciuto l’ultima parte del fascismo, e poi la guerra, ho vissuto in prima persona l’esperienza dei bombardamenti americani su Messina; e poi la Liberazione, quando comincia un’altra storia… Gli anglo-americani cominciano dalla Sicilia, e dunque per noi la Liberazione dal fascismo è cominciata un paio d’anni prima che altrove. Per la mia generazione cominciarono una serie di scoperte a catena: cominciamo a conoscere contemporaneamente la democrazia, il gusto per la libertà, il senso delle amicizie, l’amore e il sesso, l’amore, ma anche la letteratura americana, il neorealismo italiano…In quegli anni io sono iscritto al Partito Comunista…”-

Domanda: Dai giovani fascisti in camicia nera alla camicia rossa…

Loteta: “Come tanti della mia generazione, del resto: dalla camicia nera al fazzoletto rosso attorno al collo. Era il periodo in cui bisognava avere tutto, non si doveva indulgere a compromessi, e il “tutto” era il sole dell’avvenire, la dittatura del proletariato, la società di giusti, e tutte quelle cose…”.

Domanda: Quando finisce la sbornia?

Loteta: “La sbornia come la chiami tu, finisce con il liceo e l’approdo all’università”.

Domanda: “Sei comunista da ragazzino?”.

Loteta: “La tessera comunista la prendo intorno al ’44-’45…”.

Domanda: Comunista negli anni del liceo, laico radicale e socialista negli anni dell’università… Cosa succede?

Loteta: “A essere sincero, i primi dubbi li avevo già da liceale. Esplodono quando sono segretario dei giovani comunisti di Messina. Avevo creato la cellula studenti medicina, e in Federazione si accorgono che faccio qualche discorso strano. Vengo convocato, e mi fanno una specie di processi; processi che per fortuna non erano quelli molto più tragici di Stalin in Unione Sovietica, ma come inquisitori ci sapevano fare; insomma, mi chiedono le ragioni di quel mio dissenso. E dico cose che oggi sono ovvie, allora lo erano molto meno…”.

Domanda: Per dare un’idea?

Loteta: “Alle loro domande rispondo con altre domande. Per esempio: Lenin è morto di morte naturale. Stalin è vivo; ma tutti gli altri che hanno fatto la Rivoluzione, i Trotsky, i Kamenev, gli Zinov’ev, i Bucharin, dove sono?”.

Domanda: Finisce come?

Loteta: “Mi prendono per le spalle, nel senso vero, e mi buttano fuori. Radiato. E così finisce il mio periodo comunista; quella fine coincide con l’inizio di quella storia che dura tuttora: una storia goliardica, radicale, socialista. A Messina c’è l’Associazione goliardica che aderisce all’Unione goliardica Italiana. Una delle mie prime cose che io faccio nel 1950 è andare a Roma alla Festa delle Matricole, che si svolge in contemporanea con l’Anno Santo 1950: in quella Roma piena di preti, monache, pellegrini, ci siamo noi goliardi che facevano ovviamente ben altro dagli oremus. E conosco parecchi dei goliardi che poi diventeranno dei miei ‘fratelli maggiori’, appunto Pannella, Roccella, Stanzani, Iannuzzi…”.

Domanda: Pannella era già il Pannella che conosciamo?

Loteta: “Io avevo 19 anni, lui uno in più. Entrava e usciva tranquillamente dalle stanze del Partito Liberale in via Frattina, e da quelle ancora più esclusive de “Il Mondo” di Pannunzio; e impazzava nell’UGI. Con lui, con loro scopro autori e libri fondamentali, quelli di Piero Gobetti, Gaetano Salvemini, Ernesto Rossi, Mario Rossi Doria…”.

Domanda: Eravate comunque stretti tra cattolici e comunisti…

Loteta: “All’università, no; noi laici, radicali eravamo maggioritari. Nel paese no, ma all’università eravamo quelli con maggiore consenso. Una volta, nel corso di una sua visita a Washington, gli americani hanno chiesto a Gino Giugni, che ha vissuto anche lui gli anni della Goliardia, quel era la migliore scuola di quadri politici in Itali; e ricordo che lui rispose senza esitare: “La miglior scuola di politica in Italia è stata l’UGI. Aveva ragione. L’UGI riusciva ad unire elementi che sembravano inconciliabili. Da una parte il richiamo alle tradizioni goliardiche, le feste delle matricole, le libere Università di scolari; dall’altro un impegno che non era partitico, ma squisitamente politico. Per anni lo slogan dell’UGI è stato “Fuori i partiti dall’università”. Bada: i partiti, non la politica. Perché la politica c’è sempre stata; dura a volte, sempre appassionata…Ecco, questa era in soldoni l’UGI…”.

Domanda: Citi Pannella; ma c’erano anche altri personaggi importanti, che hanno inciso, “segnato”: Roccella, Iannuzzi, Stanzani, per dirne di tre…

Loteta: “Sui personaggi dell’UGI ci sarebbe tanto da dire… Comincerei con Guido Rossi, “Bob”: un vecchio Goliardo di Bologna, quello che nel 1946, alla prima riunione dei goliardi italiani avvenuta se non sbaglio a Venezia conia una specie di manifesto di cos’è la Goliardia, vale la pena di ripeterle: “Goliardia è cultura e intelligenza; è amore per la libertà e coscienza delle nostre responsabilità di fronte alla scuola di oggi, alla professione di domani e, infine, culto dello spirito che genera un particolare modo di intendere la vita alla luce di un’assoluta libertà di critica di fronte a uomini e di istituti e, infine, culto delle antichissime tradizioni che diffusero nel mondo il nome delle nostre libere università di scolari“. Ecco, se stiamo attenti: cultura, intelligenza, anticonformismo…in nuce c’è già in nuce tutto l’essenziale…”.

Domanda: Molto bello, opportuno e giusto questo tuo richiamo a Bobo Rossi, personaggio importante e che non molti ricordano. Pannella spessissimo lo ricordava, il debito che aveva contratto con lui. Trovo significativo che a distanza di anni tu abbia recitato a memoria quella dichiarazione di voi Goliardi. Significa che quei concetti li avete scolpiti nella carne, spesso anche Sergio Stanzani la ripeteva, anche lui a memoria…

Loteta: “E’ così. Fa parte del nostro essere. Bobo Rossi apparteneva a una generazione di goliardi un po’ diversa da noi. Lui era Goliardo da prima, ma c’era un comune sentire. Noi gli dobbiamo molto. Rossi è un protagonista di quella Goliardia che dava molta importanza alle feste delle matricole, al culto delle antiche tradizioni di libertà e sberleffo; al congresso dell’UGI del 1952 a Firenze si entra in una fase più politica. Diciamo che si scherza molto seriamente, anche se prima seriamente si scherzava… A quel congresso UGI di Firenze c’è una relazione emblematica per capire lo spirito dei tempi, quella di Iannuzzi, che a un certo punto parla di Luca Marano, un personaggio di un romanzo di Francesco Jovine, “Le terre del sacramento”. Iannuzzi contrappone il Marano di Jovine al Mario di “Addio giovinezza” della Goliardia del prefascismo, quel Mario che finisce gli studi universitari, torna a casa, si fa regalare l’orologio d’oro dei laureati, comincia una professione, si imborghesisce e comincia una vita di routine che non è evidentemente quella alla quale aspiravamo noi. Luca Marano, ci ricorda Iannuzzi, è tutt’altra cosa. Vive nel periodo dell’inizio del fascismo; lui è abruzzese, va a studiare a Napoli, si batte contro il fascismo e, alla fine, sconfitto, muore, come è sconfitta la classe antifascista del ’22. Iannuzzi contrappone il Luca Marano a Mario. Luca è il nuovo Goliardo. Mi ricordo che in quello stesso congresso Stanzani, dice: “Io il berretto goliardico ce l’ho… Ce l’ho in valigia, non l’ho voluto portare per non caricare di un significato gioioso e festaiolo quello che invece è per noi una scelta politica”. In quel momento il leader maximo è Franco Roccella. Si deve soprattutto a lui questa svolta dell’UGI. Siamo tutti
intorno a Franco: Stanzani, Pannella, Iannuzzi, Alberto Spreafico, Brunello Vigezzi, io stesso, e molti altri…E’ Roccella a coniare la definizione di unione laica delle forze da contrapporre all’unità delle forze laiche…Perché fuori dall’università i vari partiti cominciavano a elaborare quelle proposte di posticce sommatorie, uno più due, illudendosi che potessero fare tre o quattro, mentre l’esperienza dimostra che uno più uno quasi sempre fa uno se non meno ancora…”.

Domanda: Quella dell’unione laica delle forze in luogo dell’unità delle forze laiche sembra un gioco di parole; in realtà è un concetto di straordinaria ricchezza…

Loteta: “E’ un principio, un valore, è un qualcosa che rivela una grande profondità culturale e consapevolezza politica. L’UGI è stata questa “unione”…”.

Domanda: Un patrimonio, una cultura che vi portate avanti fino agli anni Sessanta…

Loteta. “Siamo verso la fine degli anni Cinquanta, congresso UGI di Perugia, fa la sua prima apparizione Bettino Craxi… ero appena laureato, ero alla presidenza, e mi capita di dare la parola a un ragazzo magro, alto, con il basco alla Pietro Nenni e gli occhiali. Lo ascolto, fa un bel discorso, e mi dico: “Caspita, questo è bravo, vediamo come si chiama…”; guardo nell’elenco e vedo che si chiama Benedetto Craxi detto Bettino. Questo è il primo incontro che ho avuto con lui. Finito il discorso ho voglia di saperne di più, parliamo, si diventa amici. Lui lì comincia la sua carriera universitaria; si interrompe anni dopo, quando, in un altro congresso, viene messo in minoranza; da allora comincia la sua carriera di dirigente di partito nella rossissima Sesto San Giovanni, che era il feudo politico di Armando Cossutta…”.

Domanda: Nonostante la profonda divergenza di idee politiche Craxi e Cossutta sul piano personali erano molto amici…

Loteta: “Vero. Ed è proprio a Sesto San Giovanni che questa amicizia si consolida e cementa. Ma stiamo andando in un’altra storia, torniamo all’UGI di Roccella, Pannella, Iannunzzi, Stanzani… All’università di sono sostanzialmente quattro gruppi: il FUAN neo-fascista. I cattolici dell’Intesa, i comunisti del CUDI e l’UGI. A un certo punto, e su spinta soprattutto di Pannella, i comunisti del Centro Universitario Democratico Italiano, decidono di aderire all’UGI… o meglio: c’è chi decide per loro…”.

Domanda: È Palmiro Togliatti che decide, perché i giovani comunisti non erano tanto d’accordo, i due fratelli Berlinguer per esempio…

Loteta: “Infatti. Ed è Marco, soprattutto a spingere. Ne parla anche con Togliatti…C’è una battuta bellissima: a un certo punto, Marco dice a Togliatti durante questo incontro: “Guardi che in fondo siamo gli ultimi illuministi di questo secolo”. E Togliatti gelido: “Non si preoccupi, è un peccato veniale…”
Questo dà l’idea, poi, dell’intelligenza cinica, ma certamente intelligenza di Togliatti. In quel momento, Togliatti capisce immediatamente che il CUDI non ha avvenire; che la cosa da fare per non veder morire l’organizzazione, è entrare nell’UGI… qui gioca un pò anche poi la teoria gramsciana dell’entrismo…evidentemente c’era anche questo. Comunque, contro il parere di Enrico e Giovanni Berlinguer, Togliatti decide che i comunisti devono entrare nell’UGI”.

Domanda: Tra i contrari c’è Romano Ledda che per una legge di contrappasso viene poi incaricato di fare l’operazione.

Loteta: “Sì: Romano è contrario all’entrata nell’UGI, e nel più puro stile stalinista viene incaricato di trasferire gli iscritti del CUDI nell’UGI.
Qui comincia un’altra UGI, dove i partiti cominciano ad avere un peso; e si arriva al ’66, un episodio tragico: quando nell’Università di Roma, in seguito ai brogli elettorali che c’erano stati per un’elezione dell’organismo rappresentativo romano, scoppiano violenti tafferugli, e i fascisti spingono un ragazzo, Paolo Rossi, da un muro; Paolo cade e muore. È il primo morto, l’unico morto di quella stagione universitaria. Ricordo che “L’Espresso” esce con un bell’articolo di Iannuzzi che simboleggiava quello che erano diventati gli organismi rappresentativi e poi la morte di Paolo Rossi.”

Domanda: Era ancora “L’Espresso” di Arrigo Benedetti?

Loteta: “Sì, c’era ancora Benedetti. “Un fiore sul letamaio”, si intitola quell’articolo. Il fiore chiaramente era Paolo Rossi; il letamaio era quello che erano diventati gli organismi rappresentativi. Comunque tutto questo finisce due anni dopo.”

Domanda: I comunisti a un certo punto entrano, nell’UGI e sciolgono il CUDI perché si rendono conto che è l’unico modo per non scomparire all’interno dell’università. Ma c’è anche la cattolica Intesa, con cui Pannella intrattiene un intenso rapporto. C’è un doppio binario: da una parte è favorevole all’entrata del CUDI, dall’altra cerca e favorisce un dialogo-confronto con l’Intesa…

Loteta: “E’ così. Solo che i cattolici rifiutano questo dialogo-confronto. Non vogliono entrare nell’UGI, e del resto si capisce: alle loro spalle avevano mille anni della Chiesa… insomma. I cattolici, all’università, erano raggruppati nell’Intesa Universitaria, una sorta di federazione della FUCI, dell’Azione Cattolica, del Movimento Giovanile Democristiano… insomma, è molto difficile che queste componenti si sciogliessero…”.

Domanda: Perché Pannella si pone questo obiettivo, che obiettivo si prefiggeva?

Loteta: “Pannella era convinto di potere laicizzare chi entrava nell’UGI.
Direi che era questo il suo scopo…”.

Domanda: Con che risultato?

Loteta: “L’operazione, con i comunisti nel loro complesso non è riuscita. Con qualche singolo, sì; ma i comunisti che si sono affacciati nell’UGI, a cominciare da Achille Occhetto, non direi abbiano risentito molto della nostra impostazione”.

Domanda: Però almeno ci avete provato… A un certo punto Loteta si laurea, e si impegna nella professione giornalistica; e anche qui un episodio che ti prego di raccontare. Il Loteta che approda all“Astrolabio” la rivista fondata da Ferruccio Parri e da Ernesto Rossi, dopo la clamorosa rottura con Pannunzio per via del cosiddetto caso Piccardi. La sede di “Astrolabio” era a via di Torre Argentina 18, secondo piano; al terzo il Partito Radicale di cui Pannella aveva preso le redini…

Loteta: “Sì…Quella di “Astrolabio” è un’avventura che comincia nel 1962, prima quindicinale, poi settimanale. Vorrei però fare un piccolo passo indietro, perché mi hai fatto ricordare quel Consiglio nazionale del Partito Radicale, in cui si consuma la scissione cui hai fatto cenno. Allora ero un giovanissimo consigliere nazionale del partito. Grosso modo c’erano tre componenti: quella liberale, dei liberali che si erano allontanati dal Partito dopo l’avvento di Giovanni Malagodi; ed era una componente che vedeva tra i suoi esponenti di spicco Bruno Villabruna, Mario Paggi, lo stesso Pannunzio; c’era poi una componente ex azionista: Leo Valiani, Leopoldo Piccardi, lo stesso Rossi; e una terza componente quella di provenienza UGI: Pannella, Roccella, Spadaccia e un gruppo di giovani che stanno con loro. Ecco: io fui l’ultimo eletto al Consiglio nazionale, quello in cui si consuma la scissione. Devo dire che quella riunione fu tremenda: vedemmo un Ernesto Rossi feroce contro Pannunzio. Dall’altro lato, Leone Cattani e… come si chiama…il nobile…Nicolò Carandini, ecco. Rossi comincia una requisitoria contro Pannunzio che aveva accusato Piccardi di complicità con il nazismo, e gli ricorda tutti gli scritti che Pannunzio aveva pubblicato negli anni del regime. Carandini che lo interrompe urlando “Vergogna, vergogna!”, si intromette Lino Iannuzzi che afferra il microfono e dice: “Va bene io, scusate, a questo punto, ho capito perché Mussolini vince contro tutti gli antifascisti come voi…”. Insomma, per farla breve, dopo la rottura Rossi e Piccardi, pensano di fondare un giornale. Racimolano qualche finanziamento, nasce “L’Astrolabio”. Assume una connotazione decisamente di sinistra… Direi che qui potrebbe andare bene la definizione di Riccardo Lombardi: “acomunista”; cioè non anticomunista, ma certamente non comunista, vicino ai socialisti, a una certa eredità del Partito d’Azione che ancora si ritrova… “L’Astrolabio”, dopo un paio d’anni diventa settimanale, è un giornale curioso, perché si divide in due parti: la prima è quella di Ferruccio Parri e di Ernesto Rossi, dei collaboratori della loro generazione: un giornale di persone che scrivono cose estremamente interessanti e intelligenti, magari un tantino… non so trovare l’aggettivo…, diciamo elitario. C’era poi una giovanissima redazione, composta da Luigi Ghersi, Mario Signorino, Dino Pellegrino, io stesso e altri: avevamo l’idea di un giornale come di un foglio di estrema attualità; e, quindi sotto con la cronaca, la cronaca politica, i fatti… Ecco, da questo strano miscuglio, nasce “L’Astrolabio” che è un giornale di estremo interesse per quel periodo. Un giornale che poi subisce anche lui una scissione tanto per cambiare, quando Parri decide di dar luogo al gruppo degli Indipendenti di Sinistra; Lombardi e gli altri lombardiani lasciano il giornale, e lascia anche Ghersi che era un socialista e lo aveva diretto fino a quel momento. La direzione passa a Mario Signorino. In quel periodo, succedono mille cose sulle quali “L’Astrolabio” è presente: c’è il ’68, e noi, specie la parte giovane della redazione, lo seguiamo con un entusiasmo forse un po’ troppo eccessivo; Parri è invece in una posizione più riflessiva. Non è ostile, ma più prudente. E’ anche il periodo in cui si comincia a prendere consapevolezza del fenomeno mafioso: che da contadina si trasforma in cittadina, mette le mani sugli appalti, il contrabbando… È anche il periodo della del SIFAR: il famoso “tintinnio di sciabole” evocato da Pietro Nenni, il caso De Lorenzo, vicende sulle quali scrivono a lungo sia Eugenio Scalfari e Iannuzzi su “L’Espresso”; e Parri ed io, su suo incarico, su “L’Astrolabio”…”.

Domanda: E’ anche il periodo del caso Felice Braibanti…

Loteta: “Tutto comincia, per quanto mi riguarda, nel ’68. Pannella, sempre lui tanto per cambiare, allora frequentava molto il “Palazzaccio”; un giorno entra in un’aula dove si celebra un processo, e si vede immerso in un’atmosfera medievale, da caccia alle streghe: l’imputato è un giovane, magro, con la barbetta, la faccia un tantino ascetica, Aldo Braibanti; era stato partigiano, lo avevano torturato a via Rasella. A Liberazione avvenuta si era dato agli studi. Si occupava di tante cose…Tra l’altro era un mirmecologo, uno studioso degli usi e dei costumi delle formiche e, guarda caso, era omosessuale”.

Domanda: Peccato mortale, per quei tempi…

Loteta: “Viene accusato di avere plagiato un giovane. Due ragazzi avevano deciso di andare a vivere con lui; secondo la famiglia di uno dei due, Braibanti lo aveva plagiato. Nel codice penale era ancora contemplato il reato di plagio. Così si celebra un processo. Il tribunale era presieduto da Orlando Falco, un grosso magistrato che poi andrà a dirigere il tribunale che si occupa di Pietro Valpreda e delle bombe di Piazza Fontana. Il Pubblico Ministero, un bigotto, Antonino Loiacono…”.

Domanda: Perché parlo di caccia alle streghe?

Loteta: “Perché sia nella requisitoria del Pubblico Ministero, sia nella parte civile che in alcune testimonianze, Braibanti viene definito come un diavolo che plagia questo giovane, ne fa uno schiavo, lo tiene sotto di sé… Questo giovane, per la verità, era andato con Braibanti in modo consenziente; tra l’altro era un buon pittore, dipingeva bene… la famiglia lo fa rinchiudere in manicomio. Gli fanno almeno venti elettroshock. Alla fine della “cura” non sa più tenere un pennello in mano, era completamente rimbecillito. Questo per quello che riguarda il ragazzo. Comunque, assistiamo a questa cosa medievale, e ne cominciamo a scrivere. Marco su “Agenzia Radicale”, io su “L’Astrolabio”.
Braibanti, dopo un’arringa feroce da parte di Loiacono, viene condannato a nove anni di reclusione. L’appello conferma la condanna riducendo la reclusione da nove a sei anni. In appello l’avvocato difensore di Braibanti era Giuseppe Sotgiu. Ricordo la parte finale della sua arringa; rivolto a Braibanti, gli dice: “Capisco che per te questa è un’ora brutta, un’ora tremenda. È un’ora come quelle che tu subivi quando venivi torturato dalle SS, dai nazisti, però non temere, come allora verrà per te giustizia e libertà”. In realtà non fu così, Braibanti non ebbe né giustizia né libertà. Venne un’altra cosa: una querela che Loiacono intentò a Pannella e a me per diffamazione e per calunnia. Il processo si svolge a L’Aquila, nel 1972, e sotto processo finisce anche Mario Signorino, che era il responsabile di “L’Astrolabio”. Si riapre così di fatto il processo Braibanti, a L’Aquila. Vengono a darci solidarietà tutta una serie di intellettuali e di personaggi del mondo dello spettacolo e della cultura: Vittorio Gassman, Alberto Moravia, Dacia Maraini che poi scriverà un delizioso racconto su un Pubblico Ministero che si eccita durante le arringhe e in una in particolare ha perfino un orgasmo, di cui la moglie si accorge perché gli tocca le mutande bagnate. Chiaramente in questo racconto rappresentato Loiacono… Parri, ultraottantenne, viene a testimoniare in mio favore, ed è una che ancora oggi mi commuove…”.

Domanda: Tanta solidarietà non vi evita la condanna…

Loteta: “Veniamo condannati, gli avvocati non riescono a dimostrare che la diffamazione non c’era. Per i giudici de L’Aquila meritiamo sette mesi di reclusione. La condanna viene confermata in appello, e infine annullati in Cassazione, perché uno degli avvocati nostri era Franco De Cataldo, altro radicale…”.

Domanda: Anche lui un figlio dell’UGI…

Loteta: “Con un passato di UGI a Bari, e personaggio di spessore nel mondo radicale. Franco era un avvocato d’attacco, di cui i magistrati avevano francamente paura. Lui riesce a convincerli… Ma la storia non finisce qui, perché otteniamo un grosso risultato: il reato di plagio viene cancellato dal codice penale italiano. Ecco, questa, posso dirlo tranquillamente, è una nostra grande vittoria, soprattutto di Pannella, ma anche mia e di altri”.

Domanda: “È giunto il tempo di fare un po’ di pubblicità a due libri che andrebbero ancora oggi ristampati; chi li trova il consiglio è di non lasciarseli sfuggire. Il primo è “Fratello, mio valoroso compagno”, pubblicato da Marsilio. Racconta di un personaggio che si chiamava Fernando De Rosa: una bella figura di anarchico libertario, socialista, radicale, che muore ammazzato durante la Guerra Civile di Spagna, ma ne aveva combinate anche altre, protagonista, tra l’altro, nell’ottobre del 1929 di un attentato in Belgio al principe Umberto di Savoia, che era andato a Bruxelles a chiedere la mano della principessa Maria José… La storia di De Rosa è molto bella. L’altro libro si chiama “Cuore da battaglia”, è una lunga intervista a un personaggio, come posso dire, eretico, ostracizzato, per lungo tempo, riabilitato solo nell’estremo tramonto della sua vita, Randolfo Pacciardi. Cominciamo con De Rosa.

Loteta: “De Rosa è una figura leggendaria, un giovane Garibaldi del Novecento, anche se pochissimo conosciuto nella storiografia italiana.
Cominciamo dalla fine, cioè dalla morte. Lui, italiano, a un certo punto diventa anche spagnolo: fa parte della gioventù socialista spagnola e, quando Franco nel ’36 sbarca nella Spagna meridionale con i “moros”, gran parte della popolazione spagnola si mobilita contro il franchismo; e De Rosa crea un battaglione di giovani socialisti, il “Battaglione Octobre”. Alla testa di questo battaglione, sulla Sierra Nevada, mentre c’è da snidare un nido di mitragliatrici, sale imprudentemente su un’altura; un cecchino gli spara in testa e muore. La cosa sorprendente è che al suo funerale, a Madrid, partecipa un milione di persone. La commemorazione funebre è tenuta da Pietro Nenni, che era un grande amico e compagno di De Rosa. Dopodiché, De Rosa viene sepolto nel cimitero civile nel Cementerio Civil di Madrid e la cosa finisce lì. Ricomincia quando io scrivo il libro, e prima di concluderlo, faccio due cose: vado a Madrid, ho una lunga conversazione con Santiago Carrillo che guidava la gioventù socialcomunista quando De Rosa era un giovane socialista italiano prestato alla Spagna. Carrillo lo conosceva benissimo. E poi, assieme a un mio amico che era il corrispondente de “Il Messaggero” a Madrid, Josto Maffeo, decidiamo di andare alla Cementerio Civil a cercare la tomba di De Rosa.
È lì accade una cosa incredibile. Entriamo al Cementerio Civil, il custode gli dice: “Sì, andate, cercate, ma io non ho repertorio, gli elenchi sono bruciati, non so chi c’è, guardate.”… All’ingresso troviamo un mausoleo, il mausoleo a Dolores Ibárruri, la pasionaria comunista dalla Guerra di Spagna, un mausoleo enorme. Poi ci addentriamo fra le tombe, e troviamo gente di tutti i tipi… Troviamo la tomba del sindacalista spagnolo ultimo garrotato da parte dei franchisti in pochi anni prima, negli anni Settanta. Troviamo la tomba di Largo Caballero che ha guidato il Governo spagnolo nel periodo dell’aizzamento, della rivolta da parte di Franco, dei franchisti…Troviamo di tutto. Comincia ad imbrunire. Non sappiamo più come fare, accendiamo fiammiferi e accendini, guardiamo. Troviamo tombe divelte, troviamo spazi vuoti, Da di De Rosa, niente! Non c’è più traccia”.

Domanda: Un libro davvero da non perdere, questo “Fratello mio, valoroso compagno”, pubblicato da Marsilio; veniamo ora all’altro, “Cuore da battaglia”, una lunga intervista con Landolfo Pacciardi, pubblicata dalle Nuove Edizioni del Gallo, le Nuove Edizioni del Gallo…

Loteta: “Temo introvabile”.

Domanda: Comunque segnaliamolo, chissà che non se ne trovi qualche copia, o che qualcuno non ritenga di pubblicarlo… perché Pacciardi è un bel personaggio. Anche lui combattente in Spagna. Anche lui con i repubblicani, gli antifranchisti; e poi in Italia, militante e dirigente del Partito Repubblicano, ma in contrasto con Ugo La Malfa…Presidenzialista all’americana e questo lo paga: viene cacciato via dal partito. Ricordo che aveva un giornale, si chiamava “Nuova Repubblica”, pubblica una lunga intervista curata da Giano Accame a Pannella; in seguito a quella lunga intervista, dove già Pannella esprime quello che è sempre stato e quello che è, esce un durissimo corsivo su “l’Unità”, “Un Pannella demistificato”, si mettono in guardia i compagni: “State attenti perché i radicali si presentano come compagni ma sono dei provocatori, dovete vigilare!”. Pacciardi viene coinvolto nella vicenda del cosiddetto “golpe bianco” che vede tra i suoi protagonisti Edgardo Sogno; e il magistrato che si occupa di questa storia è un giovanissimo Luciano Violante… Pacciardi insomma è un personaggio… Com’è che decidi di occupartene?

Loteta: “Guarda, l’ultima cosa che hai detto mi ricorda una cosa. Pacciardi viene incriminato da Violante, allora zelante magistrato comunista a Torino, per il tentato, l’inesistente golpe di Sogno. Sogno viene anche arrestato. Pacciardi invece viene messo “solo” sotto inchiesta. Pacciardi manda una lettera a Violante di questo tenore: “Egregio Signore, so che lei mi accusa di un complotto per eliminare la democrazia italiana, complotto in cui io – perché c’è questa cosa strana – avrei ordito anche a Madrid; le faccio presente che non vado a Madrid dal 1937, da quando guidavo il Battaglione Garibaldi, la Brigata Garibaldi contro i fascisti, i nazisti e i falangisti che hanno eliminato la Repubblica spagnola. Le faccio presente una cosa. Io non ho avuto paura dei fascisti nel ’22; non ho avuto paura dei falangisti e dei nazisti nel ’36, non ho avuto paura dei comunisti quando i comunisti si sono rivoltati contro di me; stia certo che io non ho paura di lei; faccia quello che vuole”. Poi Pacciardi mi racconta di aver fatto leggere la lettera al suo avvocato, che sbianca: “Ma quello ti può arrestare…”. “Faccia pure”, risponde Pacciardi. Violante evidentemente comprende che non è il caso… Comunque Pacciardi è un gran personaggio. A suo vantaggio va soprattutto, per quello che mi riguarda, la parte della Guerra Civile Spagnola, lui dirige la Brigata Garibaldi che poi perde perché nel ’37 scatta la repressione degli anarchici, dei trotskisti del POUM da parte dei comunisti. A Barcellona scoppiano durissimi combattimenti tra comunisti e anarchici. Il Battaglione Garibaldi viene incaricato di andare a Barcellona. Racconta Pacciardi: “Mi dissero che c’era un’offensiva fascista e bisognava resistere però, camminando nelle strade, nelle strade da Madrid a Barcellona, vedo che tutte le case hanno gli usci chiusi, le finestre sbarrate, la gente non esce. In genere ci accoglievano bene, festosi. Chiedo: “Perché?”. Al mio capo di Stato Maggiore, si chiamava “Braccialarghe”, era un vecchio anarchico, dico: “Tu che li conosci meglio, vai a vedere perché.”. Quello va, torna, e mi dice: “Guarda che non ci mandano contro i falangisti, ci mandano a reprimere gli anarchici”. Io allora ordino al battaglione di tornare indietro. I comunisti mandarono un commissario politico per farmi cambiare idea, e io lo faccio arrestare.” Ecco, questo era Pacciardi. Rimane ancora un poco e perde il comando della Brigata, va a Parigi, e comincia un’altra storia”.

Domanda: C’è un terzo libro di Loteta che mi piace segnalare; spero che sia di facile reperimento: “Istantanee tra cronaca e storia” l’editore Pungitopo; è di qualche anno fa ma spero che se ci si rivolge alla casa editrice…

Loteta: “Si trova, e soprattutto chiedendolo online: Amazon, IBS…”.

Domanda: Procuratevelo, perché merita. E’ costituito da una serie di ritratti, faccio qualche nome, un assaggio: Togliatti, Armando Borghi, Sandro Pertini, il Pacciardi di cui abbiamo parlato fino adesso, Boris Giuliano, il poliziotto ammazzato dalla mafia, Leonardo Sciascia, Parri, Girolamo Li Causi, Ernesto Rossi, Giovanni Falcone, insomma, è una bella galleria di personaggi… Prendiamone uno non a caso: Sciascia: entrambi siciliani; tu di mare, Messina, lui più dell’interno, Racalmuto…

Loteta: “La Sicilia delle zolfatare. Sempre Sicilia, ma differenti. Sciascia per esempio aveva timore del mare, ed era cosa ancestrale, tipica dei siciliani dell’interno: il mare per lui era quello delle invasioni piratesche, barbariche, dei maremoti, degli equipaggi dispersi… Per me il mare è vita. Sciascia forse è l’unica persona che io conosco, comunque uno dei pochi, che non aveva mai fatto un bagno a mare e non ci pensava neanche lontanamente a farne”.

Domanda: Che tipo di legame avevi con Sciascia?

Loteta: “Faccio un esempio: la sua segretaria di allora, quando era deputato radicale, non si capacitava del fatto che quando andavo a trovarlo a vicolo Valdina, dove aveva il suo ufficio, o quando s’andava a colazione, facevamo lunghe chiacchierate di dodici o tredici parole in tutto; il resto era un guardarsi negli occhi, un ammiccare tipico di noi siciliani, e lei non capiva come riuscissimo a parlare e in effetti noi parlavamo. Ed è un po’ quello che avviene in questi pochi versi che gli ho dedicato con grande affetto: “Cadevano dal labbro saraceno parole, una ad una, pronunciate a fatica, la fatica dell’essere e del pensare. Si disegnavano, sul sorriso amaro, l’incomunicabilità del veggente e la speranza”.

(trascrizione non rivista dall’autore)

+ VIDEO

Valter Vecellio intervista Giuseppe Loteta, scrittore e giornalista.

L’intervista è stata registrata domenica 15 maggio 2016 alle ore 11:00.

Nel corso dell’intervista sono stati trattati i seguenti temiAnno Santo, Antifascismo, Astrolabio, Azione Cattolica, Berlinguer, Braibanti, Carandini, Cattolicesimo, Cultura, Dc, De Lorenzo, Democrazia, Economia, Fascismo, Franco, Fuci, Giornalismo, Giugni, Gobetti, Golpe, Gramsci, Guerra, Il Messaggero, Il Mondo, La Malfa, Laicita’, Lenin, Liberalismo, Marano, Messina, Omosessualita’, Pannella, Pannunzio, Parri, Partiti, Partito Radicale, Pci, Piccardi, Pli, Politica, Pri, Psdi, Roccella, Rossi, Rossi Doria, Salvemini, Sciascia, Sicilia, Socialismo, Societa’, Sogno, Spagna, Stalin, Stanzani, Storia, Unione Goliardica Italiana, Universita’, Urss, Violante.

Questa intervista è disponibile anche nella sola versione audio.

Fonte: Radio Radicale

+ TESTO

Domanda: Giuseppe Loteta è un giornalista, uno scrittore, ma a noi interessa qui, soprattutto come protagonista e testimone di un periodo della nostra recente storia irripetibile e di grande importanza. Loteta infatti ha vissuto in prima persona gli anni dell’Unione Goliardica Italiana; il suo impegno radicale e socialista data da sempre. Dopo gli anni dell’università per anni ha svolto attività giornalistica: la stagione esaltante de “L’Astrolabio” diretto da Ferruccio Parri e da Ernesto Rossi, personalità che non hanno bisogno di presentazione.
Poi un’esperienza in un settimanale che forse andrebbe ricordato più di quanto non sia: “Alt”. Per anni poi al “Messaggero” di Roma. Mi fermo qui, che il resto verrà nel corso della conversazione. Vorrei però cominciare chiedendoti come capita che un ragazzo che vive a Messina, a un certo punto sulla strada incontra l’UGI, è lì che conosci Marco Pannella, Franco Roccella, Lino Iannuzzi, Sergio Stanzani; e poi il Partito Radicale di Mario Pannunzio, gli “Amici del Mondo”, esperienze da cui viene “segnato per tutta la vita”…

Giuseppe Loteta: “La mia generazione, praticamente, è quella che vive la tragedia della guerra e gli anni successivi. Abbiamo fatto in tempo ad essere Balilla, abbiamo conosciuto l’ultima parte del fascismo, e poi la guerra, ho vissuto in prima persona l’esperienza dei bombardamenti americani su Messina; e poi la Liberazione, quando comincia un’altra storia… Gli anglo-americani cominciano dalla Sicilia, e dunque per noi la Liberazione dal fascismo è cominciata un paio d’anni prima che altrove. Per la mia generazione cominciarono una serie di scoperte a catena: cominciamo a conoscere contemporaneamente la democrazia, il gusto per la libertà, il senso delle amicizie, l’amore e il sesso, l’amore, ma anche la letteratura americana, il neorealismo italiano…In quegli anni io sono iscritto al Partito Comunista…”-

Domanda: Dai giovani fascisti in camicia nera alla camicia rossa…

Loteta: “Come tanti della mia generazione, del resto: dalla camicia nera al fazzoletto rosso attorno al collo. Era il periodo in cui bisognava avere tutto, non si doveva indulgere a compromessi, e il “tutto” era il sole dell’avvenire, la dittatura del proletariato, la società di giusti, e tutte quelle cose…”.

Domanda: Quando finisce la sbornia?

Loteta: “La sbornia come la chiami tu, finisce con il liceo e l’approdo all’università”.

Domanda: “Sei comunista da ragazzino?”.

Loteta: “La tessera comunista la prendo intorno al ’44-’45…”.

Domanda: Comunista negli anni del liceo, laico radicale e socialista negli anni dell’università… Cosa succede?

Loteta: “A essere sincero, i primi dubbi li avevo già da liceale. Esplodono quando sono segretario dei giovani comunisti di Messina. Avevo creato la cellula studenti medicina, e in Federazione si accorgono che faccio qualche discorso strano. Vengo convocato, e mi fanno una specie di processi; processi che per fortuna non erano quelli molto più tragici di Stalin in Unione Sovietica, ma come inquisitori ci sapevano fare; insomma, mi chiedono le ragioni di quel mio dissenso. E dico cose che oggi sono ovvie, allora lo erano molto meno…”.

Domanda: Per dare un’idea?

Loteta: “Alle loro domande rispondo con altre domande. Per esempio: Lenin è morto di morte naturale. Stalin è vivo; ma tutti gli altri che hanno fatto la Rivoluzione, i Trotsky, i Kamenev, gli Zinov’ev, i Bucharin, dove sono?”.

Domanda: Finisce come?

Loteta: “Mi prendono per le spalle, nel senso vero, e mi buttano fuori. Radiato. E così finisce il mio periodo comunista; quella fine coincide con l’inizio di quella storia che dura tuttora: una storia goliardica, radicale, socialista. A Messina c’è l’Associazione goliardica che aderisce all’Unione goliardica Italiana. Una delle mie prime cose che io faccio nel 1950 è andare a Roma alla Festa delle Matricole, che si svolge in contemporanea con l’Anno Santo 1950: in quella Roma piena di preti, monache, pellegrini, ci siamo noi goliardi che facevano ovviamente ben altro dagli oremus. E conosco parecchi dei goliardi che poi diventeranno dei miei ‘fratelli maggiori’, appunto Pannella, Roccella, Stanzani, Iannuzzi…”.

Domanda: Pannella era già il Pannella che conosciamo?

Loteta: “Io avevo 19 anni, lui uno in più. Entrava e usciva tranquillamente dalle stanze del Partito Liberale in via Frattina, e da quelle ancora più esclusive de “Il Mondo” di Pannunzio; e impazzava nell’UGI. Con lui, con loro scopro autori e libri fondamentali, quelli di Piero Gobetti, Gaetano Salvemini, Ernesto Rossi, Mario Rossi Doria…”.

Domanda: Eravate comunque stretti tra cattolici e comunisti…

Loteta: “All’università, no; noi laici, radicali eravamo maggioritari. Nel paese no, ma all’università eravamo quelli con maggiore consenso. Una volta, nel corso di una sua visita a Washington, gli americani hanno chiesto a Gino Giugni, che ha vissuto anche lui gli anni della Goliardia, quel era la migliore scuola di quadri politici in Itali; e ricordo che lui rispose senza esitare: “La miglior scuola di politica in Italia è stata l’UGI. Aveva ragione. L’UGI riusciva ad unire elementi che sembravano inconciliabili. Da una parte il richiamo alle tradizioni goliardiche, le feste delle matricole, le libere Università di scolari; dall’altro un impegno che non era partitico, ma squisitamente politico. Per anni lo slogan dell’UGI è stato “Fuori i partiti dall’università”. Bada: i partiti, non la politica. Perché la politica c’è sempre stata; dura a volte, sempre appassionata…Ecco, questa era in soldoni l’UGI…”.

Domanda: Citi Pannella; ma c’erano anche altri personaggi importanti, che hanno inciso, “segnato”: Roccella, Iannuzzi, Stanzani, per dirne di tre…

Loteta: “Sui personaggi dell’UGI ci sarebbe tanto da dire… Comincerei con Guido Rossi, “Bob”: un vecchio Goliardo di Bologna, quello che nel 1946, alla prima riunione dei goliardi italiani avvenuta se non sbaglio a Venezia conia una specie di manifesto di cos’è la Goliardia, vale la pena di ripeterle: “Goliardia è cultura e intelligenza; è amore per la libertà e coscienza delle nostre responsabilità di fronte alla scuola di oggi, alla professione di domani e, infine, culto dello spirito che genera un particolare modo di intendere la vita alla luce di un’assoluta libertà di critica di fronte a uomini e di istituti e, infine, culto delle antichissime tradizioni che diffusero nel mondo il nome delle nostre libere università di scolari“. Ecco, se stiamo attenti: cultura, intelligenza, anticonformismo…in nuce c’è già in nuce tutto l’essenziale…”.

Domanda: Molto bello, opportuno e giusto questo tuo richiamo a Bobo Rossi, personaggio importante e che non molti ricordano. Pannella spessissimo lo ricordava, il debito che aveva contratto con lui. Trovo significativo che a distanza di anni tu abbia recitato a memoria quella dichiarazione di voi Goliardi. Significa che quei concetti li avete scolpiti nella carne, spesso anche Sergio Stanzani la ripeteva, anche lui a memoria…

Loteta: “E’ così. Fa parte del nostro essere. Bobo Rossi apparteneva a una generazione di goliardi un po’ diversa da noi. Lui era Goliardo da prima, ma c’era un comune sentire. Noi gli dobbiamo molto. Rossi è un protagonista di quella Goliardia che dava molta importanza alle feste delle matricole, al culto delle antiche tradizioni di libertà e sberleffo; al congresso dell’UGI del 1952 a Firenze si entra in una fase più politica. Diciamo che si scherza molto seriamente, anche se prima seriamente si scherzava… A quel congresso UGI di Firenze c’è una relazione emblematica per capire lo spirito dei tempi, quella di Iannuzzi, che a un certo punto parla di Luca Marano, un personaggio di un romanzo di Francesco Jovine, “Le terre del sacramento”. Iannuzzi contrappone il Marano di Jovine al Mario di “Addio giovinezza” della Goliardia del prefascismo, quel Mario che finisce gli studi universitari, torna a casa, si fa regalare l’orologio d’oro dei laureati, comincia una professione, si imborghesisce e comincia una vita di routine che non è evidentemente quella alla quale aspiravamo noi. Luca Marano, ci ricorda Iannuzzi, è tutt’altra cosa. Vive nel periodo dell’inizio del fascismo; lui è abruzzese, va a studiare a Napoli, si batte contro il fascismo e, alla fine, sconfitto, muore, come è sconfitta la classe antifascista del ’22. Iannuzzi contrappone il Luca Marano a Mario. Luca è il nuovo Goliardo. Mi ricordo che in quello stesso congresso Stanzani, dice: “Io il berretto goliardico ce l’ho… Ce l’ho in valigia, non l’ho voluto portare per non caricare di un significato gioioso e festaiolo quello che invece è per noi una scelta politica”. In quel momento il leader maximo è Franco Roccella. Si deve soprattutto a lui questa svolta dell’UGI. Siamo tutti
intorno a Franco: Stanzani, Pannella, Iannuzzi, Alberto Spreafico, Brunello Vigezzi, io stesso, e molti altri…E’ Roccella a coniare la definizione di unione laica delle forze da contrapporre all’unità delle forze laiche…Perché fuori dall’università i vari partiti cominciavano a elaborare quelle proposte di posticce sommatorie, uno più due, illudendosi che potessero fare tre o quattro, mentre l’esperienza dimostra che uno più uno quasi sempre fa uno se non meno ancora…”.

Domanda: Quella dell’unione laica delle forze in luogo dell’unità delle forze laiche sembra un gioco di parole; in realtà è un concetto di straordinaria ricchezza…

Loteta: “E’ un principio, un valore, è un qualcosa che rivela una grande profondità culturale e consapevolezza politica. L’UGI è stata questa “unione”…”.

Domanda: Un patrimonio, una cultura che vi portate avanti fino agli anni Sessanta…

Loteta. “Siamo verso la fine degli anni Cinquanta, congresso UGI di Perugia, fa la sua prima apparizione Bettino Craxi… ero appena laureato, ero alla presidenza, e mi capita di dare la parola a un ragazzo magro, alto, con il basco alla Pietro Nenni e gli occhiali. Lo ascolto, fa un bel discorso, e mi dico: “Caspita, questo è bravo, vediamo come si chiama…”; guardo nell’elenco e vedo che si chiama Benedetto Craxi detto Bettino. Questo è il primo incontro che ho avuto con lui. Finito il discorso ho voglia di saperne di più, parliamo, si diventa amici. Lui lì comincia la sua carriera universitaria; si interrompe anni dopo, quando, in un altro congresso, viene messo in minoranza; da allora comincia la sua carriera di dirigente di partito nella rossissima Sesto San Giovanni, che era il feudo politico di Armando Cossutta…”.

Domanda: Nonostante la profonda divergenza di idee politiche Craxi e Cossutta sul piano personali erano molto amici…

Loteta: “Vero. Ed è proprio a Sesto San Giovanni che questa amicizia si consolida e cementa. Ma stiamo andando in un’altra storia, torniamo all’UGI di Roccella, Pannella, Iannunzzi, Stanzani… All’università di sono sostanzialmente quattro gruppi: il FUAN neo-fascista. I cattolici dell’Intesa, i comunisti del CUDI e l’UGI. A un certo punto, e su spinta soprattutto di Pannella, i comunisti del Centro Universitario Democratico Italiano, decidono di aderire all’UGI… o meglio: c’è chi decide per loro…”.

Domanda: È Palmiro Togliatti che decide, perché i giovani comunisti non erano tanto d’accordo, i due fratelli Berlinguer per esempio…

Loteta: “Infatti. Ed è Marco, soprattutto a spingere. Ne parla anche con Togliatti…C’è una battuta bellissima: a un certo punto, Marco dice a Togliatti durante questo incontro: “Guardi che in fondo siamo gli ultimi illuministi di questo secolo”. E Togliatti gelido: “Non si preoccupi, è un peccato veniale…”
Questo dà l’idea, poi, dell’intelligenza cinica, ma certamente intelligenza di Togliatti. In quel momento, Togliatti capisce immediatamente che il CUDI non ha avvenire; che la cosa da fare per non veder morire l’organizzazione, è entrare nell’UGI… qui gioca un pò anche poi la teoria gramsciana dell’entrismo…evidentemente c’era anche questo. Comunque, contro il parere di Enrico e Giovanni Berlinguer, Togliatti decide che i comunisti devono entrare nell’UGI”.

Domanda: Tra i contrari c’è Romano Ledda che per una legge di contrappasso viene poi incaricato di fare l’operazione.

Loteta: “Sì: Romano è contrario all’entrata nell’UGI, e nel più puro stile stalinista viene incaricato di trasferire gli iscritti del CUDI nell’UGI.
Qui comincia un’altra UGI, dove i partiti cominciano ad avere un peso; e si arriva al ’66, un episodio tragico: quando nell’Università di Roma, in seguito ai brogli elettorali che c’erano stati per un’elezione dell’organismo rappresentativo romano, scoppiano violenti tafferugli, e i fascisti spingono un ragazzo, Paolo Rossi, da un muro; Paolo cade e muore. È il primo morto, l’unico morto di quella stagione universitaria. Ricordo che “L’Espresso” esce con un bell’articolo di Iannuzzi che simboleggiava quello che erano diventati gli organismi rappresentativi e poi la morte di Paolo Rossi.”

Domanda: Era ancora “L’Espresso” di Arrigo Benedetti?

Loteta: “Sì, c’era ancora Benedetti. “Un fiore sul letamaio”, si intitola quell’articolo. Il fiore chiaramente era Paolo Rossi; il letamaio era quello che erano diventati gli organismi rappresentativi. Comunque tutto questo finisce due anni dopo.”

Domanda: I comunisti a un certo punto entrano, nell’UGI e sciolgono il CUDI perché si rendono conto che è l’unico modo per non scomparire all’interno dell’università. Ma c’è anche la cattolica Intesa, con cui Pannella intrattiene un intenso rapporto. C’è un doppio binario: da una parte è favorevole all’entrata del CUDI, dall’altra cerca e favorisce un dialogo-confronto con l’Intesa…

Loteta: “E’ così. Solo che i cattolici rifiutano questo dialogo-confronto. Non vogliono entrare nell’UGI, e del resto si capisce: alle loro spalle avevano mille anni della Chiesa… insomma. I cattolici, all’università, erano raggruppati nell’Intesa Universitaria, una sorta di federazione della FUCI, dell’Azione Cattolica, del Movimento Giovanile Democristiano… insomma, è molto difficile che queste componenti si sciogliessero…”.

Domanda: Perché Pannella si pone questo obiettivo, che obiettivo si prefiggeva?

Loteta: “Pannella era convinto di potere laicizzare chi entrava nell’UGI.
Direi che era questo il suo scopo…”.

Domanda: Con che risultato?

Loteta: “L’operazione, con i comunisti nel loro complesso non è riuscita. Con qualche singolo, sì; ma i comunisti che si sono affacciati nell’UGI, a cominciare da Achille Occhetto, non direi abbiano risentito molto della nostra impostazione”.

Domanda: Però almeno ci avete provato… A un certo punto Loteta si laurea, e si impegna nella professione giornalistica; e anche qui un episodio che ti prego di raccontare. Il Loteta che approda all“Astrolabio” la rivista fondata da Ferruccio Parri e da Ernesto Rossi, dopo la clamorosa rottura con Pannunzio per via del cosiddetto caso Piccardi. La sede di “Astrolabio” era a via di Torre Argentina 18, secondo piano; al terzo il Partito Radicale di cui Pannella aveva preso le redini…

Loteta: “Sì…Quella di “Astrolabio” è un’avventura che comincia nel 1962, prima quindicinale, poi settimanale. Vorrei però fare un piccolo passo indietro, perché mi hai fatto ricordare quel Consiglio nazionale del Partito Radicale, in cui si consuma la scissione cui hai fatto cenno. Allora ero un giovanissimo consigliere nazionale del partito. Grosso modo c’erano tre componenti: quella liberale, dei liberali che si erano allontanati dal Partito dopo l’avvento di Giovanni Malagodi; ed era una componente che vedeva tra i suoi esponenti di spicco Bruno Villabruna, Mario Paggi, lo stesso Pannunzio; c’era poi una componente ex azionista: Leo Valiani, Leopoldo Piccardi, lo stesso Rossi; e una terza componente quella di provenienza UGI: Pannella, Roccella, Spadaccia e un gruppo di giovani che stanno con loro. Ecco: io fui l’ultimo eletto al Consiglio nazionale, quello in cui si consuma la scissione. Devo dire che quella riunione fu tremenda: vedemmo un Ernesto Rossi feroce contro Pannunzio. Dall’altro lato, Leone Cattani e… come si chiama…il nobile…Nicolò Carandini, ecco. Rossi comincia una requisitoria contro Pannunzio che aveva accusato Piccardi di complicità con il nazismo, e gli ricorda tutti gli scritti che Pannunzio aveva pubblicato negli anni del regime. Carandini che lo interrompe urlando “Vergogna, vergogna!”, si intromette Lino Iannuzzi che afferra il microfono e dice: “Va bene io, scusate, a questo punto, ho capito perché Mussolini vince contro tutti gli antifascisti come voi…”. Insomma, per farla breve, dopo la rottura Rossi e Piccardi, pensano di fondare un giornale. Racimolano qualche finanziamento, nasce “L’Astrolabio”. Assume una connotazione decisamente di sinistra… Direi che qui potrebbe andare bene la definizione di Riccardo Lombardi: “acomunista”; cioè non anticomunista, ma certamente non comunista, vicino ai socialisti, a una certa eredità del Partito d’Azione che ancora si ritrova… “L’Astrolabio”, dopo un paio d’anni diventa settimanale, è un giornale curioso, perché si divide in due parti: la prima è quella di Ferruccio Parri e di Ernesto Rossi, dei collaboratori della loro generazione: un giornale di persone che scrivono cose estremamente interessanti e intelligenti, magari un tantino… non so trovare l’aggettivo…, diciamo elitario. C’era poi una giovanissima redazione, composta da Luigi Ghersi, Mario Signorino, Dino Pellegrino, io stesso e altri: avevamo l’idea di un giornale come di un foglio di estrema attualità; e, quindi sotto con la cronaca, la cronaca politica, i fatti… Ecco, da questo strano miscuglio, nasce “L’Astrolabio” che è un giornale di estremo interesse per quel periodo. Un giornale che poi subisce anche lui una scissione tanto per cambiare, quando Parri decide di dar luogo al gruppo degli Indipendenti di Sinistra; Lombardi e gli altri lombardiani lasciano il giornale, e lascia anche Ghersi che era un socialista e lo aveva diretto fino a quel momento. La direzione passa a Mario Signorino. In quel periodo, succedono mille cose sulle quali “L’Astrolabio” è presente: c’è il ’68, e noi, specie la parte giovane della redazione, lo seguiamo con un entusiasmo forse un po’ troppo eccessivo; Parri è invece in una posizione più riflessiva. Non è ostile, ma più prudente. E’ anche il periodo in cui si comincia a prendere consapevolezza del fenomeno mafioso: che da contadina si trasforma in cittadina, mette le mani sugli appalti, il contrabbando… È anche il periodo della del SIFAR: il famoso “tintinnio di sciabole” evocato da Pietro Nenni, il caso De Lorenzo, vicende sulle quali scrivono a lungo sia Eugenio Scalfari e Iannuzzi su “L’Espresso”; e Parri ed io, su suo incarico, su “L’Astrolabio”…”.

Domanda: E’ anche il periodo del caso Felice Braibanti…

Loteta: “Tutto comincia, per quanto mi riguarda, nel ’68. Pannella, sempre lui tanto per cambiare, allora frequentava molto il “Palazzaccio”; un giorno entra in un’aula dove si celebra un processo, e si vede immerso in un’atmosfera medievale, da caccia alle streghe: l’imputato è un giovane, magro, con la barbetta, la faccia un tantino ascetica, Aldo Braibanti; era stato partigiano, lo avevano torturato a via Rasella. A Liberazione avvenuta si era dato agli studi. Si occupava di tante cose…Tra l’altro era un mirmecologo, uno studioso degli usi e dei costumi delle formiche e, guarda caso, era omosessuale”.

Domanda: Peccato mortale, per quei tempi…

Loteta: “Viene accusato di avere plagiato un giovane. Due ragazzi avevano deciso di andare a vivere con lui; secondo la famiglia di uno dei due, Braibanti lo aveva plagiato. Nel codice penale era ancora contemplato il reato di plagio. Così si celebra un processo. Il tribunale era presieduto da Orlando Falco, un grosso magistrato che poi andrà a dirigere il tribunale che si occupa di Pietro Valpreda e delle bombe di Piazza Fontana. Il Pubblico Ministero, un bigotto, Antonino Loiacono…”.

Domanda: Perché parlo di caccia alle streghe?

Loteta: “Perché sia nella requisitoria del Pubblico Ministero, sia nella parte civile che in alcune testimonianze, Braibanti viene definito come un diavolo che plagia questo giovane, ne fa uno schiavo, lo tiene sotto di sé… Questo giovane, per la verità, era andato con Braibanti in modo consenziente; tra l’altro era un buon pittore, dipingeva bene… la famiglia lo fa rinchiudere in manicomio. Gli fanno almeno venti elettroshock. Alla fine della “cura” non sa più tenere un pennello in mano, era completamente rimbecillito. Questo per quello che riguarda il ragazzo. Comunque, assistiamo a questa cosa medievale, e ne cominciamo a scrivere. Marco su “Agenzia Radicale”, io su “L’Astrolabio”.
Braibanti, dopo un’arringa feroce da parte di Loiacono, viene condannato a nove anni di reclusione. L’appello conferma la condanna riducendo la reclusione da nove a sei anni. In appello l’avvocato difensore di Braibanti era Giuseppe Sotgiu. Ricordo la parte finale della sua arringa; rivolto a Braibanti, gli dice: “Capisco che per te questa è un’ora brutta, un’ora tremenda. È un’ora come quelle che tu subivi quando venivi torturato dalle SS, dai nazisti, però non temere, come allora verrà per te giustizia e libertà”. In realtà non fu così, Braibanti non ebbe né giustizia né libertà. Venne un’altra cosa: una querela che Loiacono intentò a Pannella e a me per diffamazione e per calunnia. Il processo si svolge a L’Aquila, nel 1972, e sotto processo finisce anche Mario Signorino, che era il responsabile di “L’Astrolabio”. Si riapre così di fatto il processo Braibanti, a L’Aquila. Vengono a darci solidarietà tutta una serie di intellettuali e di personaggi del mondo dello spettacolo e della cultura: Vittorio Gassman, Alberto Moravia, Dacia Maraini che poi scriverà un delizioso racconto su un Pubblico Ministero che si eccita durante le arringhe e in una in particolare ha perfino un orgasmo, di cui la moglie si accorge perché gli tocca le mutande bagnate. Chiaramente in questo racconto rappresentato Loiacono… Parri, ultraottantenne, viene a testimoniare in mio favore, ed è una che ancora oggi mi commuove…”.

Domanda: Tanta solidarietà non vi evita la condanna…

Loteta: “Veniamo condannati, gli avvocati non riescono a dimostrare che la diffamazione non c’era. Per i giudici de L’Aquila meritiamo sette mesi di reclusione. La condanna viene confermata in appello, e infine annullati in Cassazione, perché uno degli avvocati nostri era Franco De Cataldo, altro radicale…”.

Domanda: Anche lui un figlio dell’UGI…

Loteta: “Con un passato di UGI a Bari, e personaggio di spessore nel mondo radicale. Franco era un avvocato d’attacco, di cui i magistrati avevano francamente paura. Lui riesce a convincerli… Ma la storia non finisce qui, perché otteniamo un grosso risultato: il reato di plagio viene cancellato dal codice penale italiano. Ecco, questa, posso dirlo tranquillamente, è una nostra grande vittoria, soprattutto di Pannella, ma anche mia e di altri”.

Domanda: “È giunto il tempo di fare un po’ di pubblicità a due libri che andrebbero ancora oggi ristampati; chi li trova il consiglio è di non lasciarseli sfuggire. Il primo è “Fratello, mio valoroso compagno”, pubblicato da Marsilio. Racconta di un personaggio che si chiamava Fernando De Rosa: una bella figura di anarchico libertario, socialista, radicale, che muore ammazzato durante la Guerra Civile di Spagna, ma ne aveva combinate anche altre, protagonista, tra l’altro, nell’ottobre del 1929 di un attentato in Belgio al principe Umberto di Savoia, che era andato a Bruxelles a chiedere la mano della principessa Maria José… La storia di De Rosa è molto bella. L’altro libro si chiama “Cuore da battaglia”, è una lunga intervista a un personaggio, come posso dire, eretico, ostracizzato, per lungo tempo, riabilitato solo nell’estremo tramonto della sua vita, Randolfo Pacciardi. Cominciamo con De Rosa.

Loteta: “De Rosa è una figura leggendaria, un giovane Garibaldi del Novecento, anche se pochissimo conosciuto nella storiografia italiana.
Cominciamo dalla fine, cioè dalla morte. Lui, italiano, a un certo punto diventa anche spagnolo: fa parte della gioventù socialista spagnola e, quando Franco nel ’36 sbarca nella Spagna meridionale con i “moros”, gran parte della popolazione spagnola si mobilita contro il franchismo; e De Rosa crea un battaglione di giovani socialisti, il “Battaglione Octobre”. Alla testa di questo battaglione, sulla Sierra Nevada, mentre c’è da snidare un nido di mitragliatrici, sale imprudentemente su un’altura; un cecchino gli spara in testa e muore. La cosa sorprendente è che al suo funerale, a Madrid, partecipa un milione di persone. La commemorazione funebre è tenuta da Pietro Nenni, che era un grande amico e compagno di De Rosa. Dopodiché, De Rosa viene sepolto nel cimitero civile nel Cementerio Civil di Madrid e la cosa finisce lì. Ricomincia quando io scrivo il libro, e prima di concluderlo, faccio due cose: vado a Madrid, ho una lunga conversazione con Santiago Carrillo che guidava la gioventù socialcomunista quando De Rosa era un giovane socialista italiano prestato alla Spagna. Carrillo lo conosceva benissimo. E poi, assieme a un mio amico che era il corrispondente de “Il Messaggero” a Madrid, Josto Maffeo, decidiamo di andare alla Cementerio Civil a cercare la tomba di De Rosa.
È lì accade una cosa incredibile. Entriamo al Cementerio Civil, il custode gli dice: “Sì, andate, cercate, ma io non ho repertorio, gli elenchi sono bruciati, non so chi c’è, guardate.”… All’ingresso troviamo un mausoleo, il mausoleo a Dolores Ibárruri, la pasionaria comunista dalla Guerra di Spagna, un mausoleo enorme. Poi ci addentriamo fra le tombe, e troviamo gente di tutti i tipi… Troviamo la tomba del sindacalista spagnolo ultimo garrotato da parte dei franchisti in pochi anni prima, negli anni Settanta. Troviamo la tomba di Largo Caballero che ha guidato il Governo spagnolo nel periodo dell’aizzamento, della rivolta da parte di Franco, dei franchisti…Troviamo di tutto. Comincia ad imbrunire. Non sappiamo più come fare, accendiamo fiammiferi e accendini, guardiamo. Troviamo tombe divelte, troviamo spazi vuoti, Da di De Rosa, niente! Non c’è più traccia”.

Domanda: Un libro davvero da non perdere, questo “Fratello mio, valoroso compagno”, pubblicato da Marsilio; veniamo ora all’altro, “Cuore da battaglia”, una lunga intervista con Landolfo Pacciardi, pubblicata dalle Nuove Edizioni del Gallo, le Nuove Edizioni del Gallo…

Loteta: “Temo introvabile”.

Domanda: Comunque segnaliamolo, chissà che non se ne trovi qualche copia, o che qualcuno non ritenga di pubblicarlo… perché Pacciardi è un bel personaggio. Anche lui combattente in Spagna. Anche lui con i repubblicani, gli antifranchisti; e poi in Italia, militante e dirigente del Partito Repubblicano, ma in contrasto con Ugo La Malfa…Presidenzialista all’americana e questo lo paga: viene cacciato via dal partito. Ricordo che aveva un giornale, si chiamava “Nuova Repubblica”, pubblica una lunga intervista curata da Giano Accame a Pannella; in seguito a quella lunga intervista, dove già Pannella esprime quello che è sempre stato e quello che è, esce un durissimo corsivo su “l’Unità”, “Un Pannella demistificato”, si mettono in guardia i compagni: “State attenti perché i radicali si presentano come compagni ma sono dei provocatori, dovete vigilare!”. Pacciardi viene coinvolto nella vicenda del cosiddetto “golpe bianco” che vede tra i suoi protagonisti Edgardo Sogno; e il magistrato che si occupa di questa storia è un giovanissimo Luciano Violante… Pacciardi insomma è un personaggio… Com’è che decidi di occupartene?

Loteta: “Guarda, l’ultima cosa che hai detto mi ricorda una cosa. Pacciardi viene incriminato da Violante, allora zelante magistrato comunista a Torino, per il tentato, l’inesistente golpe di Sogno. Sogno viene anche arrestato. Pacciardi invece viene messo “solo” sotto inchiesta. Pacciardi manda una lettera a Violante di questo tenore: “Egregio Signore, so che lei mi accusa di un complotto per eliminare la democrazia italiana, complotto in cui io – perché c’è questa cosa strana – avrei ordito anche a Madrid; le faccio presente che non vado a Madrid dal 1937, da quando guidavo il Battaglione Garibaldi, la Brigata Garibaldi contro i fascisti, i nazisti e i falangisti che hanno eliminato la Repubblica spagnola. Le faccio presente una cosa. Io non ho avuto paura dei fascisti nel ’22; non ho avuto paura dei falangisti e dei nazisti nel ’36, non ho avuto paura dei comunisti quando i comunisti si sono rivoltati contro di me; stia certo che io non ho paura di lei; faccia quello che vuole”. Poi Pacciardi mi racconta di aver fatto leggere la lettera al suo avvocato, che sbianca: “Ma quello ti può arrestare…”. “Faccia pure”, risponde Pacciardi. Violante evidentemente comprende che non è il caso… Comunque Pacciardi è un gran personaggio. A suo vantaggio va soprattutto, per quello che mi riguarda, la parte della Guerra Civile Spagnola, lui dirige la Brigata Garibaldi che poi perde perché nel ’37 scatta la repressione degli anarchici, dei trotskisti del POUM da parte dei comunisti. A Barcellona scoppiano durissimi combattimenti tra comunisti e anarchici. Il Battaglione Garibaldi viene incaricato di andare a Barcellona. Racconta Pacciardi: “Mi dissero che c’era un’offensiva fascista e bisognava resistere però, camminando nelle strade, nelle strade da Madrid a Barcellona, vedo che tutte le case hanno gli usci chiusi, le finestre sbarrate, la gente non esce. In genere ci accoglievano bene, festosi. Chiedo: “Perché?”. Al mio capo di Stato Maggiore, si chiamava “Braccialarghe”, era un vecchio anarchico, dico: “Tu che li conosci meglio, vai a vedere perché.”. Quello va, torna, e mi dice: “Guarda che non ci mandano contro i falangisti, ci mandano a reprimere gli anarchici”. Io allora ordino al battaglione di tornare indietro. I comunisti mandarono un commissario politico per farmi cambiare idea, e io lo faccio arrestare.” Ecco, questo era Pacciardi. Rimane ancora un poco e perde il comando della Brigata, va a Parigi, e comincia un’altra storia”.

Domanda: C’è un terzo libro di Loteta che mi piace segnalare; spero che sia di facile reperimento: “Istantanee tra cronaca e storia” l’editore Pungitopo; è di qualche anno fa ma spero che se ci si rivolge alla casa editrice…

Loteta: “Si trova, e soprattutto chiedendolo online: Amazon, IBS…”.

Domanda: Procuratevelo, perché merita. E’ costituito da una serie di ritratti, faccio qualche nome, un assaggio: Togliatti, Armando Borghi, Sandro Pertini, il Pacciardi di cui abbiamo parlato fino adesso, Boris Giuliano, il poliziotto ammazzato dalla mafia, Leonardo Sciascia, Parri, Girolamo Li Causi, Ernesto Rossi, Giovanni Falcone, insomma, è una bella galleria di personaggi… Prendiamone uno non a caso: Sciascia: entrambi siciliani; tu di mare, Messina, lui più dell’interno, Racalmuto…

Loteta: “La Sicilia delle zolfatare. Sempre Sicilia, ma differenti. Sciascia per esempio aveva timore del mare, ed era cosa ancestrale, tipica dei siciliani dell’interno: il mare per lui era quello delle invasioni piratesche, barbariche, dei maremoti, degli equipaggi dispersi… Per me il mare è vita. Sciascia forse è l’unica persona che io conosco, comunque uno dei pochi, che non aveva mai fatto un bagno a mare e non ci pensava neanche lontanamente a farne”.

Domanda: Che tipo di legame avevi con Sciascia?

Loteta: “Faccio un esempio: la sua segretaria di allora, quando era deputato radicale, non si capacitava del fatto che quando andavo a trovarlo a vicolo Valdina, dove aveva il suo ufficio, o quando s’andava a colazione, facevamo lunghe chiacchierate di dodici o tredici parole in tutto; il resto era un guardarsi negli occhi, un ammiccare tipico di noi siciliani, e lei non capiva come riuscissimo a parlare e in effetti noi parlavamo. Ed è un po’ quello che avviene in questi pochi versi che gli ho dedicato con grande affetto: “Cadevano dal labbro saraceno parole, una ad una, pronunciate a fatica, la fatica dell’essere e del pensare. Si disegnavano, sul sorriso amaro, l’incomunicabilità del veggente e la speranza”.

(trascrizione non rivista dall’autore)

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