In La segnalazione

La Segnalazione

Carteggio tra Albert Einstein e Benedetto Croce
7 giugno e 28 luglio 1944

Le date delle due lettere sono importanti: 7 giugno, e 28 luglio 1944. La seconda guerra mondiale è nella sua fase finale. Einstein, che nel suo no breve soggiorno italiano ha avuto occasione di conoscere Croce, scrive una lettera al filosofo napoletano.  Non sono lettere formali, scambi di private informazioni.

Einstein accenna all’utopia platonica della Repubblica ideale, “governata” dalla Ragione e dai “filosofi”. Croce risponde da par suo, afferma il dovere etico di operare a favore della libertà e del progresso del proprio Paese. E’ la consapevolezza che nessuno può estraniarsi, e tutti hanno il mazziniano “dovere” di dare il suo contributo d’azione quando la Patria è in pericolo: come «Socrate, che filosofò, ma combatté da oplita a Potidea, e Dante, che poetò, ma combatté a Campaldino».

Sono lettere che, ci fossero un Einstein e un Croce, potrebbero essere scritte anche oggi, per l’oggi; e per il domani.


 

Albert Einstein a Benedetto Croce
Princeton, 7 giugno 1944

Apprendo che una persona di qui, che ebbe la fortuna di visitarla, ricusò di lasciarle la lettera da me indirizzata a lui, ma scritta a Lei. Pure, di ciò mi consolo nel pensiero che Ella è ora presa da occupazioni e sentimenti incomparabilmente più importanti, e particolarmente dalla speranza che la sua bella patria sia presto liberata dai malvagi oppressori di fuori e di dentro. In questo tempo di generale sconvolgimento possa a Lei essere concesso di rendere al suo paese un servigio oltremodo prezioso, perché Ella è dei pochi che, stando di sopra dei partiti, hanno la fiducia di tutti.

Se l’antico Platone potesse in qualche guisa vedere quello che ora accade, si sentirebbe come in casa sua, perché, dopo lungo corso di secoli, vedrebbe ciò che di rado aveva visto, che si viene adempiendo in certo modo il suo sogno di un governo retto da filosofi; ma vedrebbe altresì, e ciò con maggiore orgoglio che soddisfazione, che la sua idea del circolo delle forme di governo è sempre in atto.

La filosofia e la ragione medesima sono ben lungi, per un tempo prevedibile, dal diventare guide degli uomini, ed esse resteranno il più bel rifugio degli spiriti eletti l’unica vera aristocrazia; che non opprime nessuno e in nessuno muove invidia, e di cui anzi quelli che non vi appartengono non riescono neppure a riconoscere l’esistenza. In nessuna altra società i vincoli tra viventi e morti sono così vivi, e i nostri simili dei secoli precedenti stanno con noi come amici i cui detti non perdono mai la loro attrattiva, la loro fecondità e la personale loro magia. E, infine, chi realmente appartiene a quella aristocrazia, potrà bensì dagli altri uomini essere messo a morte, ma non offeso. Con rispettosi saluti e auguri,

Suo Albert Einstein

 

Benedetto Croce ad Albert Einstein
Sorrento, 28 luglio 1944

La sua lettera mi è stata carissima, perché ho avuto sempre nel ricordo la lunga conversazione che facemmo in Berlino nel 1931, quando ci accomunammo nello stesso sentimento ansioso sul pericolo in cui versava la libertà in Europa: comunanza di sentimento e di propositi che vidi confermata allorché mi trovai a collaborare con Lei – fatta esule dalla sua patria per l’inferocita lotta contro la libertà –, nel volume di saggi sulla libertà (Freedom), preparato, or son quattro anni, in New York.

Delle due teorie di Platone, che Ella richiama, non è stata, in verità, ricevuta, anzi è stata respinta, dal pensiero moderno, quella della Repubblica perfetta, costruita e governata dalla ragione e dai filosofi, ma l’altra è stata serbata, che a lui non era particolare, del circolo delle forme, ossia delle forme necessarie in cui perpetuamente si muove la storia: con questo di più, che quel circolo è stato rischiarato dall’idea complementare del perpetuo avanzamento ed elevamento dell’umanità attraverso quel percorso necessario, o, secondo l’immagine che piacque al vostro Goethe, del suo corso a spirale. Questa idea è il fondamento della nostra fede nella ragione, nella vita e nella realtà.

Quanto alla filosofia, essa non è severa filosofia se non conosce, con l’ufficio suo, il suo limite, che è nell’apportare all’elevamento dell’umanità la chiarezza dei concetti, la luce del vero. È un’azione mentale, che apre la via, ma non si arroga di sostituirsi all’azione pratica e morale, che essa può soltanto sollecitare. In questa seconda sfera a noi, modesti filosofi, spetta d’imitare un altro filosofo antico: Socrate, che filosofò ma combatté da oplita a Potidea, e Dante, che poetò, ma combatté a Campaldino; e, poiché non tutti e non sempre possono compiere questa forma straordinaria di azione, partecipare alla quotidiana, e più aspra e più complessa guerra, che è la politica. Anche io pratico la compagnia, della quale Ella parla con così nobili parole, di coloro che già vissero sulla terra e ci lasciarono le opere loro di pensiero e di poesia, e mi rassereno e ritempero in essa: di volta in volta m’immergo in questo bagno spirituale, che è quasi la mia pratica religiosa. Ma in quel bagno non è dato restare, e da esso bisogna uscire per sottoporsi agli umili e spesso ingrati doveri che ci aspettano sull’uscio.

Perciò mi sento oggi, conforme ai miei convincimenti ed ai miei ideali, impegnato nella politica del mio paese; e vorrei, ahimè, possedere per essa a dovizia le forze che le sono più direttamente necessarie, ma tuttavia le do quelle, quali che siano, che mi riesce di raccogliere in me, sia pure con qualche stento. E ringrazio Lei dell’augurio generoso che fa all’Italia, la quale ha sofferto una triste e dolorosa vicenda, dovuta al collasso prodotto in essa come in altri paesi dalla guerra precedente, onde fu possibile ai dissennati e violenti d’impadronirsi dei poteri dello Stato non senza il gran plauso e la larga ammirazione del mondo intero, e volgere e sforzare l’Italia in una via che non era la sua, che tutta la sua storia smentiva. Perché non mai l’Italia, dalla caduta dell’Impero Romano, ha delirato di domini nel mondo, ed essa ha attuato o ha cercato libertà e nella libertà si è unificata, e il suo nazionalismo e fascismo è venuto da concetti forestieri, che solo quei dissennati e violenti potevano adottare a pretesto del loro mal fare. Neppure Roma antica ebbe quel delirio, e perché l’opera sua fu di proseguire l’opera luminosamente iniziata dall’Ellade e creare un’Europa, dando leggi civili ai barbari che non ne avevano o le avevano barbariche.

La guerra è la guerra e non ubbidisce ad altro principio che al suo proprio, e anche le più nobili ideologie sono per essa mezzi di guerra, come ogni conoscitore di storia sa e ogni uomo sagace intende. La lotta interna per la civiltà e la libertà si svolgerà poi, a guerra finita, nei paesi vincitori non meno che nei vinti, tutti sconvolti dalla guerra sostenuta, tutti dal piú al meno disabituati alla libertà; e durerà anni e sarà assai travagliosa e assai perigliosa. Ma poiché le guerre mirano, come a naturale effetto, a un assetto di pace, è da augurare e da raccomandare che gli uomini di Stato, che oggi le dirigono, pensino sin da ora a non preparare nei vari paesi condizioni tali che renderebbero impossibile una solida pace e, danneggiando così la causa stessa della libertà, preparerebbero una nuova guerra, la quale non potrà mai essere impedita dalla semplice coercizione, ma richiede la disposizione degli animi alla pace, alla concordia e alla dignità, del lavoro: « Le lingue legano le spade», come diceva un vecchio filosofo italiano.

Ma non voglio tediarla con entrare a discorrere di quel che io osservo e giudico nelle cose della politica internazionale in riferimento particolare all’Italia; ché anzi dovrei altresì chiederle venia di aver tolto occasione dalle sue parole gentili e cordiali per esporle i miei pensieri sulle alte questioni da Lei toccate. Ma naturam expelles furcatamen usque recurret : la natura cioè del filosofo, che distingue e teorizza. E, ringraziandola della sua buona lettera, Le stringo la mano.

Suo Benedetto Croce

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